Francesco Domenico Guerrazzi, Ritorno a Firenze dall’esilio

Da Paolorossi

Egli aveva provato il pane dell'esilio, nè quel suo passo incerto nasceva da noncuranza, no; quando prima lo mosse, ebbe in pensiero di recarsi a un punto determinato; poi la gioia di rivedere, dopo gli anni incresciosi dell'esilio, i luoghi diletti della sua giovinezza lo vinse sì che, dimentico di ogni altra cosa ora si aggirava alla ventura per le vie di Firenze.

Oh quanto è funesta amica la memoria al povero esiliato! Quanto mal destra consolatrice! Invece d'infondere sopra la piaga olio e vino come il Samaritano dell'Evangelo, senza volerlo vi sparge zolfo infiammato. [...]

E perchè dovea una parte della città preporre all'altra? Non componevano tutte la diletta sua patria? Errava così alla ventura, perchè dovunque si volgesse incontrava argomenti di pietà, di piacere e di travaglio. Se i luoghi percorsi un qualche bel fatto cittadino o una strage fraterna gli rammentassero, avresti potuto conoscere dal passo, che ora procedeva più lento ed ora si accelerava come se premesse lastre di fuoco.

Adesso notava le masse portentose dei palazzi baronali, fatte più smisurate dalle tenebre, e gemeva su gli odii che gli ostelli destinati al quieto vivere civile tramutarono in fortezze; e più lungamente ancora si tratteneva a considerare le umili case dei popolani appoggiate a coteste superbe dimore per averne sostegno, nel modo stesso che nel mondo i deboli si raccomandano ai potenti per conseguirne tutela; e nel modo stesso che nel mondo i deboli, dal continuo curvarsi, acquistano soltanto avvilimento e abbandono, cotesti abituri per la prossimità delle soverchianti magioni venivano a perdere la luce e il vivido circolare dell'aria.

Procedendo oltre, penetrava con gli sguardi dentro le officine degli artefici; e tentennando il capo, contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano una corona al capo o una catena ai piedi.

Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i tetti signorili, nè la misura dell'anima procedeva alla rovescia con la larghezza dei luoghi che la ricettano: pure ella fin d'allora le modeste più che le sublimi case si compiaceva visitare.

Così di pensiero in pensiero trascorrendo e per diverse vie camminando, venne a riuscire appiè del Ponte Vecchio. Andava oltre; e giunto che fu a mezzo del ponte, si affacciò alle spallette, dove declinato il capo, si pose a considerare il corso del fiume. In quel punto la sua mente era tolta alla visione dei tempi passati. [...]

Nel fragore delle acque rompentisi per le pile, echeggianti sotto gli archi del ponte, a lui parve sentire il grido lanciato dalle trascorse generazioni nei tempi futuri; suono orribilmente confuso, voragine di dolore, di pianto, di delitti e di memorie. Come narra la fama che all'imperatore Pertinace dentro la piscina si affacciasse spaventevole uno spettro a minacciarlo di morte, così in quelle rapide onde del fiume egli pensò vedere i secoli passati, in forma di truci gladiatori, fuggire dalle arene sanguinose e correre verso l'eternità, incalzati colla spada nei remi dei secoli succedenti. I lumi accesi sopra la riva mandavano obliquamente per la superficie del fiume lunghe strisce di luce, sicchè le onde grosse e veementi, nel trapassarle, riflettevano un raggio sinistro che bene si rassomigliava al corruscare dei ferri parricidi. [...]

( Francesco Domenico Guerrazzi, brano tratto dal Capitolo primo de "L'assedio di Firenze", Libreria Editrice Dante Alighieri, Milano - 1869 )

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