Francesco Filia, LA NEVE, FaraEditore 2012
Questa commistione di due modi, in genere considerati distanti, mi dice però che la scrittura di Filia si è sicuramente posta dei problemi; ma anche come li abbia risolti:
Intuire quel che non può essere colmato sedersi
affondare le mani nella terra sperare nelle nuvole
che piova, sentire l’odore di zolle bagnate alzarsi
camminare fino alla cresta, vedere il cielo allontanarsi
voltargli le spalle, lasciarsi cadere, sapere
crollare.
p 29
Ecco: è questa propensione a vivere con estrema disponibilità, lo strumento più potente capace di suggerire alla parola il suo senso e la sua forma più necessari:
C’è stato dato intuire il morire e l’orizzonte
che contiene il più piccolo sussulto della terra
il suo franare e risorgere indifferente ai muri
ai giorni abitati da voci e braccia tese
al rombo del mare e a questo tufo eroso dal vento
al sale che brucia ancora sulle nostre ferite.
p 28
Avviene, dunque, che la poesia si riappropri improvvisamente della funzione di epos, cioè della parola come racconto, e del suo afflato in forma di canto – modernamente senza piú musica – e quindi recuperato nella sua sostanza piú intima di tensione verso la realtá condivisa, il noi sociale:
Siamo allenati allo sgambetto e alle scale dopo
la caduta a guardarci le mani arrossate…
p 40
A stonare, nel coro di una voce collettiva di cui Filia si fa carico, è quella di Giuliano di Forcella, “dissociato dalla camorra negli anni Ottanta in seguito alla morte di un suo figlio diciassettenne per droga” e che, parlando della sua stessa morte avvenuta in un agguato, già dichiara l’implicito programma di Filia: sotterrare con questa neve bianca “il grigio sporco delle strade”, percorso da donne in lutto, in procinto di riconoscere “la sagoma impressa nel suolo” dei loro morti, “come un morso/nella carne/il sangue e i vestiti”…
Questa “ultima neve che cade…nera… Accecante” , segna il rapporto tra una voce collettiva e una voce singola e disperata; nella contrapposizione tra un canto corale – la neve bianca che copre, consola – e una sola voce dolorante, in grado di recuperare il canto come melos, lamento. Dimostrazione che l’io a volte è un noi, e viceversa, e come non ci possa essere contrapposizione tra intimo, privato, e dolore collettivo di una razza condannata a imparare o a disimparare dagli altri suoi simili.
La parola permeata è dunque parola che si arricchisce di senso, nè stecco secco nè cristallo, ma neve che cade, nera o sporca non importa. É sempre neve.
Sebastiano Aglieco