La famiglia del Petrarca proveniva da un paese del Valdarno, l'Incisa. Suo padre, messer Petracco, esercitava a Firenze la professione di notaio, tradizionale nella famiglia., e lo troviamo appunto notaio dei priori fra il 1300 e il 1301, nel periodo in cui Dante fece parte di questo collegio. Anche lui di parte bianca, aveva previsto i tempi duri che si avvicinavano e aveva mandato ad Arezzo la moglie, Eletta Canigiani, dove la raggiunse quando fu bandito, come Dante, nel 1302. E ad Arezzo, il 20 luglio del 1304, nasceva Francesco. Il nome del poeta doveva essere Francesco Petracco; più tardi egli lo avrebbe latinizzato in Petrarca, dandogli il significato di "arca di pietra".
Il fanciullo trascorse i primi sei anni di vita all'Incisa, dove Petracco aveva dei possedimenti. Nel 1310 il padre passò a Pisa, sperando di incontrare là Enrico VII e di poter rientrare a Firenze con l'aiuto dell'imperatore; ma invano. Non molto tempo dopo, la famiglia si trasferì ad Avignone, in Provenza, divenuta ormai sede della corte papale, ma, probabilmente per la difficoltà di trovare un alloggio conveniente nella città affollata, la madre, con Francesco e il fratello minore Gherardo, si sistemarono in un paese vicino, Carpentras. Verso i quattordici anni, Francesco passò all'università di Montpellier per studiare legge, ma la sua natura lo portava alla poesia. Invece di applicarsi sui testi di diritto, fece di tutto per procurarsi opere dei poeti e degli scrittori latini, finchè il padre, irritato, un brutto giorno glieli buttò tutti nel fuoco.
Dopo quattro anni, verso il 1322, Francesco, col fratello, veniva inviato a Bologna, per completare gli studi in quella celebre università. Ma, ancora una volta, si occupò assai più di letteratura che di leggi. Nel 1326 tornava ad Avignogne. Qui la situazione era cambiata. Sua madre era morta, suo padre era passato a nuove nozze, o forse morto, e lui, ormai maggiorenne e abbastanza provvisto di denaro, almeno per il momento, potè dedicarsi ai suoi studi preferiti e condurre una piacevole vita in quella cittadina dove, intorno alla corte pontificia, si erano raccolte famiglie nobili e ricche, amanti dei piaceri.
Quella ricerca andava interessando sempre più i dotti del tempo: erano i primi indizi di quell'amore per la civiltà classica che caratterizzerà il Rinascimento. Dei suoi viaggi Francesco mandava poi vivaci relazioni al cardinale Giovanni.
Nell'agosto di quello stesso anno, sazio di cose viste, il Petrarca si ritirva infine nella solitudine di Valchiusa, presso la sorgente del Sorga, non lontano da Avignone, un soggiorno che gli fu sempre caro. Fu un breve periodo di pace attiva, nel quale furono meditate opere e maturarono ambizioni. Già poeta celebre, Francesco ambiva al massimo riconoscimento ufficiale, l'incoronazione con l'alloro dei poeti. E non trascurò nulla per ottenerla. L'offerta gli venne fatta a un tempo dall'università di Parigi e dal Senato di Roma; e il poeta accettò quest'ultima, e, per dare maggiore solennità alla cerimonia, volle prima recarsi a Napoli per subire una sorta di esame da parte del re Roberto. Nella Pasqua del 1341 venive incoronato in Campidoglio.
Tornò verso il nord col seguito di Azzo da Correggio, che si recava a Parma per prendere possesso di quella città, di cui era divenuto signore. E presso Parma, in Selvapiana, si trattenne qualche tempo per portare a termine l'opera che più gli premeva, l'Africa. Ma, nel 1342, è ancora ad Avignone, chiamato là dal cardinale Giovanni, e le brighe della corte pontificia lo riprendono. Tuttavia la sua straordinaria vitalità lo spinge a nuovi studi: in particolare quello greco, di cui tuttavia non riuscì mai a impadronirsi. Intime inquietudini lo inducono a ripegarsi su di sé e ne nasce un breve trattato latino, Il mio segreto. Nel 1343 è inviato alla corte di Napoli, con un incarico del cardinale Giovanni. Di ritorno si ferma a Selvapiana; ma la pace di un tempo è scomparsa, Parma è stata lasciata da Azzo da Correggio e, contesa fra gli Este e i Visconti, è cinta d'assedio. Il poeta si rifugia a Verona, presso gli Scaligeri, e ha probabilmente incarichi per giungere a pacificare i contendenti. Nel 1345 è ancora ad Avignone di dove ogni tanto ripara a Valchiusa: è di questo periodo il Carme bucolico, in latino.
Sembrava deciso a stabilirsi a Parma, ma la sua irrequietudine non era ancora placata. Nel 1349 è a Padova, alla corte di Giacomo Novello da Carrara, preso ancora in un'attività diplomatica che lo fa vagare a Ferrare, a Mantova, a Verona, a Firenze, a Roma. A Firenze conosce un suo ammiratore, Giovanni Boccaccio. Poi torna a Parma e a Padova, dove giunge il Boccaccio a offrirgli, a nome della Signoria fiorentina, una cattedra nello Studio, l'università che si voleva far risorgere a Firenze. Nel 1351 è ancora ad Avignone. Ma l'ambiente gli è ormai ostile. Nel '53, egli lascia per sempre questa città, torna in Italia e, per alcuni anni, si ferma a Milano, presso i Visconti, che gli affidano importanti incarichi. Nel 1361 è ancora a Padova; l'anno successivo a Venezia, dove la Repubblica gli dona una bella casa sulla Riva degli Schiavoni. Vorrebbe e potrebbe fermarvisi, ma, a cianquatasette anni non ha ancora superato l'irrequietudine giovanile; incarichi diplomatici e politici lo spingono a varie riprese a Milano, a Pavia, a Padova. Infine, nel 1370, si ritira sui colli Euganei, ad Arquà, in una villetta, confortato dalla presenza della sua figlia naturale Francesca, del marito di lei e dei loro due figlioletti. Adesso, per la prima volta, il vecchio poeta gusta una vera vita familiare, amareggiata tuttavia dalla morte di uno dei nitpotini, a due anni, e interrotta da altri viaggi. Si spegne nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374 e viene sepolto presso la sua casa ad Arquà.
L'opera che costituisce la sua gloria è il Canzoniere, ossia la raccolta delle sue poesie in volgare, alle quali, sebbene ostentasse di considerarle come cosucce da poco, dedicò per tutta la vita un paziente lavoro di revisione e di lima. Sono per lo più poesie d'amore dedicate a Laura, vivente e morta: una Laura che non è figura ideale e idelalizzata, ma donna reale, anche se irraggiungibile, e poi, dopo la morte, figura amica con cui il poeta si confida, sentendola sempre più sua e viva adesso che non è più in vita.
Per la prima volta, col Petrarca, appare una poesia che, senza tentare slanci mistici, esprime il segreto del cuore umano e si ispira ai più intimi moti, alle più varie reazioni di una sensibilità delicatissima. Questo clima poetico è tutto dominato da una pacata tristezza, da una continua ricerca di pace che non è inoperosità o tranquillo benessere, ma superamento di ogni inquietezza, sereno dominio dell'esistenza. E il tutto si esprime in un linguaggio splendido e terso, forse il più puro della nostra poesia. Quando però il poeta volle imitare Dante trasfigurando Laura, nei Trionfi, una sorta di quadri allegorici, fece opera piuttosto fredda, tutta affidata alla maestria del verso, indiscutibilmente meno sentita che non le altre.
L'influenza del Petrarca, a differenza di quella di Dante, fu enorme e non solo in Italia: tutto il Rinascimento ne fu soggetto e anche i secoli successivi ne risentirono. Ma il cosiddetto "petrarchismo" colse solo la splendida estriorità della poesia petrarchesca. Più importante fu il suo insegnamento nell'invitare la poesia successiva all'approfondimento psicologico e allo studio degli stati d'animo più segreti.