Francesco Tadini: Archivio Tadini – mostra Museo dell’uomo di Emilio Tadini, 1974, Studio Marconi, testo in catalogo di Arturo Carlo Quintavalle

Creato il 03 aprile 2012 da Francescotadini @francescotadini

Francesco Tadini amplia il sito /Archivio relativo all’opera di Emilio Tadini con uno splendido testo critico di Arturo Carlo Quintavalle dal catalogo edito  in occasione della mostra intitolata Museo dell’uomo – del 1974 –  presso la galleria Studio Marconi  (oggi Fondazione Marconi, diretta da Giorgio Marconi) di Milano: Arturo Carlo Quintavalle - Le strutture della condensazione e dello spostamento - Queste pagine vorrebbero essere un commento puntuale alle opere di Tadini, ma anche questo, all’interno del discorso suo, è contraddittorio; ed infatti come è possibile commentare con parole, appunto, delle immagini? Un discorso metalinguistico, e quindi e necessariamente un discorso inadempiente. Forse, per intenderci, e visto che le parole sono una convenzione di « discorso », nella nostra cultura che comunica o ritiene, meglio, di comunicare a livello « scientifico » proprio solo per parole (senza rendersi conto invece che le immagini la condizionano, le immagini etero-dirette) sarà necessario stabilire alcuni punti fermi preliminari che riguardano Tadini. Siamo davanti ad un ideologo della pittura, una delle poche figure coscienti, nella cultura visiva italiana, di quanto va compiendo; in questo senso i suoi testi, necessariamente, sono molto più pregnanti ed a fondo di quanto, di solito, i critici vanno scrivendo su di lui. E vi è una precisa ragione: Tadini domina due tipi di linguaggi, il visivo e il letterario, con singolare capacità, e fornisce in ambedue un discorso, compie una precisa dimostrazione. >> 

Ma di che cosa? Prima di tutto della funzione dell’artista nella moderna cultura; non momento di abbandono e di assenza dal reale ma ideologo, figura continuamente presente, proprio in un ambito lasciato dalla cultura idealistica al mitico modello della ispirazione, alla particolarità del discorso cosi detto « estetico ». Tadini insomma non permette a se stesso abbandoni alle poetiche della alienazione, intendendole alienanti in quanto invitano al disimpegno, alla analisi solo dall’esterno, al non giudizio ed al non intervento sui fatti. Essere ideologo vuole dire usufruire di tutti gli strumenti più moderni ed efficaci che la ricerca scientifica contemporanea offre, e quindi porsi dinanzi al sistema pittura come dinanzi ad un oggetto; la pittura quindi, per Tadini, come oggetto di analisi. Ma quali, di tale analisi, gli strumenti? Viviamo in un universo di convenzioni, specie « artistiche », dove le forme sono belle, i colori efficaci, ben dati, gli oggetti giusti o al loro posto e si potrebbe continuare con questa divulgazione di massa delle vecchie estetiche della bella immagine, delle belle figure, delle belle forme.

Tadini muove da due differenti ordini di coscienze, che vedrò di precisare. Prima di tutto stabilisce che la figura dell’artista non può che essere, oggi, attento alla formazione del proprio linguaggio, ed infatti l’artista non è che una persona che sa usare la lingua iconica e quindi, se sa usarla, deve conoscerne il vocabolario, la sintassi e, dei singoli vocaboli, l’ambito semantico, l’estensione dei significati, la loro stratificazione, storica origine, eventuale durata. Così quindi, per prima cosa, il pittore deve conoscere in pittura, i linguaggi nel loro storico porsi. Ma deve, naturalmente, saper distinguere i momenti e gli svolgimenti di questi linguaggi. Poi il pittore deve stabilire una metodologia per accostarsi, anzi per usare questi linguaggi, per scartarne alcuni e sceglierne altri e deve quindi avere una coscienza totale della cultura contemporanea; il pittore è un critico e, nello stesso tempo, è un ideologo; solo i vecchi idealisti pensano ancora che pittore sia eguale ad « artista » e sia diverso da « filosofo ». Quella di Tadini è autocoscienza ed ha un preciso valore « politico ». E infatti questo discorso sulla autocoscienza è naturalmente discorso sulla ideologia che è continuamente presente nell’opera di Tadini e che è continuamente ed efficacemente presente nelle sue esplicazioni dell’opera medesima. Una ideologia rivoluzionaria, naturalmente, marxista, ma maturata alla luce dei fatti più significativi della moderna cultura.

Prendiamo qualche modello di moderna scrittura, prendiamo Celine, lo spazio

Emilio Tadini

sovrapposto, metà di memoria, raccontato, e metà in presa diretta, colorato di toni cupi e violenti, di ironia e di improvvisi distacchi del Voyage; prendiamo la scrittura intersecata, profondamente simbolica, prendiamo le allusioni, le invenzioni linguistiche che sono invenzioni d’immagini, prendiamo i discorsi interni, come sulle radici delle parole di Finnegan’s Wake, o ancora i bozzetti più staccati e da ricomporre nella memoria di Gente di Dublino o, meglio, il sistema complessissimo e spaventosamente ricco dell’Ulixes; tutto questo, la scrittura, anzi la modalità di scrittura di Joyce, sta alla base di quanto viene scrivendo, dipingendo Tadini. Ma è una riflessione sulle strutture, non certamente sulla costruzione letteraria in se medesima. Naturalmente le componenti sono numerose altre, c’è Ginsberg, ad esempio, e la poesia della sua generazione e la violenza, spesso, di certo Sartre nei particolari realistici quasi « esposti », si direbbe, in pittura.

Tutto ciò forma la struttura del discorso pittorico di Tadini ma non ci spiega ancora le motivazioni del suo articolarsi. Allora si deve aggiungere, a questo complesso intrecciarsi di motivi, una scelta che in uno studioso avvertito di marxismo si fa sempre più obbligata, l’interesse appunto per l’intero impianto del discorso freudiano. Nata all’interno della ricerca scientifica post darwiniana, collegata a livello antropologico all’analisi della realtà « selvaggia » fatta allora da Frazer, la ricerca di Freud non è soltanto, come ci appare adesso, una proiezione a livello metastorico, e cioè ritenuto valido per tutti i tempi e tutti i luoghi, di una vicenda culturale invece strettamente connessa proprio alla cultura tardoottocentesca borghese medioeuropea, ma è anche, a livello linguistico, il momento della scoperta di temi di grande interesse. Dal linguaggio della psiche come analizzato da Freud muove la ricerca più stimolante della psicoanalisi recente e che collega quella esperienza allo strutturalismo; e Tadini appunto, illustrando il proprio modo di far pittura, citava, et pour cause, L’interpretazione dei sogni come momento nel quale si ha una presa di coscienza del funzionamento del processo mentale. E, naturalmente, in quel caso, notava coincidenze tra processo onirico e processo pittorico non perché la pittura sia sogno ma perché la pittura fa parte del processo mentale e la costruzione, i modelli associativi della pittura sono ricostruibili, spiegabili, analizzabili come quelli del sogno.

Sarebbe falsante ritenere peraltro Tadini collegabile al surrealismo; lui giustamente, ricordando i mediocri risultati della traduzione in immagini della simbologia onirica freudiana operata dal surrealismo ufficiale, sentiva il limite pesante di quelle ricerche; che cosa erano esse infatti se non una maniera di tradurre i contenuti « medi » (più usuali) dei sogni, di tradurre un dizionario enciclopedico dei significati pratici dei sogni, messo lì da Freud con funzioni precisamente terapeutiche ed analitiche, in un sistema di immagini universali e valide? Nulla a che fare dunque con Dalì, nulla a che fare quindi con Tanguy o simili, neppure sul piano del metodo; quello che a Tadini ha interessato, in Freud, non è se il mare è segno del rapporto sessuale ma piuttosto la distanza che vi può essere tra il mare e una barca, e un vestito vuoto, e un altro oggetto, la distanza e quindi il loro significato entro i termini di quella eventuale distanza; il perché mai quel vestito vuoto, caratteristico dell’arredo di interni, è spostato su quel mare o quella riva. L’esempio è fittizio ma rende il discorso di Tadini sul problema della condensazione e dello spostamento che, inseriti da Freud al capitolo // lavoro onirico nel suo libro fondamentale, sono alla base  certamente per Tadini del suo concepire i quadri, costruirli, architettarli.

Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini, Museo dell'uomo, la passeggiata del poeta, 1974, 260x200

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Mi sembra anzi che il problema dell’opera di Tadini sia più chiaro proprio se si considera che, attraverso un complesso impegno di ricerca, lavorando sulle metodologie della percezione e del ricordo, sul tema della psicologia della forma e molto altro, egli ha elaborato un discorso profondamente interdisciplinare che chiarisce da una parte le ragioni della propria scelta pittorica e che la giustifica alla luce di una profonda coscienza letteraria; l’analisi strutturale insomma che a suo tempo Victor Sklovskij applicava, quella analisi è la medesima che Tadini impiega per la costruzione delle sue opere. Non quindi una scrittura realistica, non quindi una scrittura in qualsiasi maniera descrittiva, partecipe, ma sempre un modo di dipingere distaccato, un modo che enuncia e denuncia il proprio impegno alla razionalità, al controllo del discorso. Il che, naturalmente, porta ad una pregnanza linguistica, ad una coscienza del proprio fare del tutto inusitate nel « far quadri » contemporaneo che, di solito, resta un abile mestiere.

Il problema della pittura di Tadini sul piano storico si pone proprio per la scelta linguistica da lui operata che lo differenzia nella cultura contemporanea. In genere tutto il gruppo degli artisti italiani che si conviene chiamare « pop » ha deciso di scegliere una lingua che serva a descrivere, ad evidenziare l’alienazione; così lo specchio, oppure la stesura appiattita delle forme, il caricare i colori fino a portarli alle tonalità della pubblicità di massa, oppure la ritraduzione di tutte le forme in un materiale alieno che funga da schermo estradante, sia esso legno o plastica o altro medium sono i procedimenti più consueti. Tadini invece non si è servito di un tal genere di trascrizioni, piuttosto ha mantenuto, ai suoi quadri, tutta la loro intensità di stesura pittorica, tutta la loro violenza di colore; solo, il colore, ha coscientemente voluto alienarlo, cioè ha voluto « scrivere » da un lato un sistema dei bruni, delle tinte basse che sono nella tradizione del cubismo analitico, dall’altra ha « scritto » le violente stesure della cultura pop o .comunque, rielaborate dalla cultura pop. Si affrontano cioè, nelle sue opere « pittoriche », appunto due sistemi significanti a livello coloristico, quelli cioè di due differenti avanguardie.

E, naturalmente, il discorso andrà fatto anche per le forme che andranno quindi collegate al colore, ma quest’ultimo, spesso, in Tadini, assume la funzione di elemento connotante, e quindi, in certo senso, mi sembra che possa essere esaminato a parte, estrapolato dal contesto. Il rapporto di Tadini con la storia della pittura che si conviene chiamare pop è quindi un non rapporto, è estraniamento e lo è, a maggior ragione, nei confronti dei modelli eventuali americani; se mai tangenze vi sono, alle origini, con alcune ricerche inglesi ma sempre tenendo presente che Tadini si volge ad una rottura del nesso sintattico mentre la cultura pop, pur attraverso le dilatazioni, le estrapolazioni dai contesti etc. cercava, questo nesso con il sistema — reale —, di mantenerlo. Dovremmo a questo punto ripercorrere le tappe della precedente ricerca di Tadini ma qui sembra più utile procedere nella lettura delle opere recentissime e di ricchezza singolare. Le due terminate per ultime, proprio qualche giorno prima della mostra, devono essere commentate per prime in quanto implicano tutto un discorso sul rapporto con le avanguardie e quindi una presa di coscienza, come sopra dicevo, del linguaggio, della funzione del linguaggio storico, delle parole storiche come queste avanguardie sono venute elaborando.

Museo dell’uomo, Il bue sul tetto è un’opera complessa; vi troviamo   i segni dei due centri, allusivi all’età della scoperta della macchina, dei maggiori movimenti d’avanguardia europei, di un certo genere di avanguardia, appunto Milano e Parigi (« Gare de Lyon »). E a riprova abbiamo le case del cubismo anno 1909 circa, quel post cezannismo a prospettive ribaltate che è un momento preciso nella ricerca linguistica europea e di Picasso, e poi di Braque, in particolare. Troviamo poi, accanto ad un pattinatore con scarpe spaiate (trovate) la scritta dada « objet trou… » mentre a fianco ed alla rovescia campeggia, ironicamente, la scritta « avanguardia »; sopra, un grande bue, quello di Marc, il simbolismo della vacca, quello di Chagall o il toro di Guernica? E che vi sia, comunque, nelle avanguardie, un rovescio, il pericolo del militarismo, lo vediamo nella figura di destra, sovrascritta « diluvio » mentre a sinistra una bambina porta in mano, come un pugnale, la penna. Le teste poi, come sempre in questi quadri, sono dissociate dai corpi, sono maschere, alludono all’oriente, all’arte negra, insomma a tutte le colonizzazioni e le mode del ritorno al puro, all’originario, che caratterizzano la cultura occidentale agli inizi del secolo. Anche La rivoluzione teatrale rappresenta un momento di questo discorso sulle avanguardie; anche qui le citazioni cubiste delle case, ma l’allusione ovviamente è a Mejerchol’d e, ancora qui, abbiamo la dissociazione tra figura e personaggi, tra persone e maschere e, enunciata, tra voce e corpo.

Se esaminiamo brevemente gli altri pezzi, come La stanza enorme, troviamo in evidenza il metodo compositivo assunto da Joyce e da Celine, un discorso sulla associazione e sulla contemporaneità della associazione, come una compresenza onirica di tutti i fatti, gli oggetti; per questo il fondo bianco, per questo gli oggetti fuori della funzione gerarchizzante della prospettiva. Anche le parole, « Time » ad esempio, divengono qui emblematiche; come del resto in basso il volume simbolico della Malinconia di Durer; come gli arnesi per la scrittura, il calamaio rovesciato sul tavolo, penna, e occhiali da motociclista; e a destra quella ripresa, appunto, dal disegno per il ritratto di Stravinsky di Picasso, ed a sinistra le gambe del militare, e la maschera da saldatore mostruosa più delle maschere negre. Il tempo, in questo spazio enorme, la ricerca di una successione in quésto contemporaneo affiorare di fatti. Festa e forma del cibo è un discorso sul consumo, probabilmente anche sul consumo delle idee visto che i riferimenti sono a Festa nella taverna dal secondo libro di Finnegan’s Wake ed a Celine (« Saint Pierre e Miquelon »); gli oggetti singoli assumono valore simbolico, come la ritornante poltrona di Rietveld, come la chitarra, la maschera, il lucchetto aperto, i maccheroni che sono come bossoli.

È questa appunto come una festa, la festa del cibo nella società del consumo, ma anche un discorso sulla ambiguità delle forme a seconda del contesto dove si collocano e sulla possibilità da parte dello spettatore di collegare lui stesso il racconto, di costruirselo quindi, di interpretare la sintassi dei segni. Donne che corrono sulla riva del mare: il discorso è qui sulla mitologia marina, con allusione a Ginsberg ed alla madre, che se ne è andata — senza busti né occhi — ; quelle immagini appaiono accanto a quelle mitizzate della barca, chiusa come un ricettacolo, ed a scoperti simboli fallici, allo sciacquone, al bidone dell’acqua che fa da albero, e poi assieme al gioco delle parole rive – river – livre, si – sea – mare, parallelo alle « parole visive » (se così posso dire) ambigue, la seggiola dove non ci si siede, improbabile mobile da mare. Ancora più complesso Le ultime parole del dottore francese dove si intreccia il discorso su Celine e quello di Burroughs quando parla del  gangster Dutch Schultz e delle sue mille parole al momento di morire; così nella stesura del quadro, i simboli si intrecciano, e mentre al centro in alto sta la ripresa da una foto di Celine con ai piedi una scarpa da donna ed una da uomo segno ovvio di ambiguità, sulla destra vediamo l’auto che si riporta al bandito e Parigi a Celine e a sinistra la poltrona che ci riconduce a Celine con scritto sù Newark che riporta al bandito. Sull’armadio il libro di piombo come la pistola, la frase del bandito morente sullo specchio.

Qui insomma, vediamo, nell’intrecciarsi complesso di altre simbologie, dal bisessuale del rossetto al fallico, e ambiguo pur esso, del ghiacciolo, dalle maschere ritornanti ai lucchetti, troviamo l’intrecciarsi di due storie, quella di Celine e quella di Burroughs, come i tempi di un doppio racconto che riaffiori a livello di memoria e che sia presente tutto insieme nel medesimo momento. In questo senso, di durata e presenze di ricordi, La passeggiata del poeta è un chiarimento del discorso antecedente; « cinema », « caffè », una passeggiata parigina, sopra le strutture cubiste, più in basso l’invenzione del geometrico, quindi l’intersecarsi ad angolo di due personaggi privi di testa, due vestiti vuoti, maschere di se stessi. Il discorso di Tadini insomma, composto secondo il modello linguistico freudiano della condensazione e dello spostamento, vuole costruire sul piano della lingua pittorica un modello analogo a quello della scrittura dell’avanguardia; non un sistema di dipendenze ma di coordinazioni, non un fatto descritto ma un mondo compresente dove si possa sceqliere una interpretazione.

I dipinti di Tadini non sono ambigui, sono complessi; non sono letterari ma sono colti ; Tadini vuol riscattare la cultura di immagini ad una precisa dignità, vuole che le due vicende, quella pittorica e quella letteraria, trovino un punto di intersezione, che è appunto quello del metodo di racconto, il loro è un rapporto di strutture.

Arturo Carlo Quintavalle

Emilio Tadini, Museo dell'uomo, 1974

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Francesco Tadini invita a visitare le mostre a Fondazione Marconi  e allo Studio Marconi ’65. Scrive lo stesso Giorgio Marconi in una presentazione del sito (LINK): “Ho aperto il 30 settembre 2010, in via Tadino 17, un piccolo spazio: Studio Marconi ’65 (come la mia vecchia galleria Studio Marconi che avevo aperto nel 1965 e chiuso nel 1992). Nel frattempo è nata la Fondazione Marconi che sta svolgendo un programma piuttosto esaustivo di mostre e antologiche relative al lavoro di un numero selezionato di artisti (tra i quali, per lunghi e densissimi anni, Tadini, n.d.r.) di cui mi sono occupato nei miei quasi 50 anni di attività. Ci sono molti spazi e gallerie con proposte di Arte Contemporanea (a Milano sono, pare,  più di 170) ma è difficile vedere opere degli artisti degli anni tra i ’50 e i ’80. Penso quindi, in questo “piccolo spazio”, di dar modo al pubblico dei collezionisti, specialmente dei più giovani, di vedere e conoscere opere, progetti, disegni e anche multipli e grafiche, il lavoro di artisti del recente passato.” Giorgio Marconi

 

Attualmente, presso Studio Marconi ’65, sono in esposizione grafiche di Sonia Delaunay: 16 litografie a colori e Le coeur à gaze, i bozzetti dei costumi realizzati dall’artista per la pièce teatrale di Tristan Tzara, un dialogo surreale tra le varie parti che compongono il volto umano (occhio, bocca e naso) rappresentato per la prima volta alla Galerie Montaigne nel 1921. L’esposizione di grafiche accresce e completa la mostra allestita alla Fondazione Marconi dove sono state presentate circa cento gouaches realizzate da Sonia Delaunay tra il 1923 e il 1934.

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Spazio Tadini, Milano, l'associazione fondata da Francesco Tadini, attualmente presieduta da Melina Scalise e grazie alla grande collaborazione di Federicapaola Capecchi, è luogo che da spazio all’arte, alla musica, alla narrativa, alla poesia, alla saggistica, al teatro, alla danza e ai dibattiti culturali.

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Francesco Tadini, per questa come per tutte le pubblicazioni web  deve tutto – come sempre  – al lavoro immenso della dottoressa Melina Scalise (giornalista e odierno presidente dello Spazio Tadini, associazione culturale non profit di Milano, con la quale progetta mostre, manifestazioni d’arte, convegni e presentazioni editoriali). Si raccomanda uno sguardo a questo LINK, al blog di Spazio Tadini, per essere al corrente dei prossimi incontri per la rassegna Spazio Corpo Potere ideata insieme alla coreografa (e socia di Spazio Tadini) Federicapaola Capecchi.

Francesco Tadini suggerisce infine un click a:

testo / recensione di Paolo Di Stefano  a “Eccetera“, romanzo di Emilio Tadini (il padre, pittore e scrittore) uscito postumo per l’editore Einaudi nella collana dei Supercoralli: LINK  -

Francesco Tadini


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