Francesco Tadini: Il monologo interiore dei personaggi di Joyce è l’opposto del passivo disporsi alla memoria che è nei personaggi di Proust – da un testo di Tadini del 1960

Creato il 26 dicembre 2011 da Francescotadini @francescotadini

Francesco Tadini invita a leggere il seguito dell’articolo – saggio di Emilio Tadini (link alla prima parte) E. Tadini, Il tempo e il cuore, in “Inventario”, a. XV, n. 1 – 6, gennaio – dicembre 1960. 

E. Tadini: …  5. «Ulisse» manda in pezzi una cronologia esteriore in una completa attuazione dell’esistente. Nel loro ricordare, i personaggi di Proust evocavano e possedevano finalmente l’ombra agile e inerte di se stessi, assumevano una decapitata sostanza vitale. Nel monologo interiore i personaggi di Joyce tendono a qualcosa che potremmo chiamare un «calcolo completo»: consumano la tendenza delle cose a diventare passato, e ne integrano il residuo oggettivo in quella attualità generale di rapporti e interazione in cui essi (e il lettore) possono riconoscere la finalità della loro esistenza. Al posto della memoria una presa di coscienza a 180 gradi, anzi, sferica. Il monologo interiore dei personaggi di Joyce è in questo senso l’esatto opposto del desideroso e passivo disporsi alla memoria che è nei personaggi di Proust. Gli oggetti della vita erano in Proust segnalati soltanto della luce artificiale del loro definitivo essere accaduti. In Joyce si liberano in tutte le loro possibilità, entrando in un mondo di rapporti sempre attuali. La memoria col diventare in Proust la dimensione di un mito. Con Joyce è uno degli strumenti di una completa organicità contemporanea. In tal modo Joyce rinnova dal fondo la concezione naturalistica della narrazione, portata a scambiare alcune concrezioni univoche per tutto il reale. In un certo senso si potrebbe dire che è Joyce a sviluppare l’oggettività embrionale dei naturalisti in un’organicità più completa. (Per fare un esempio, si potrebbe dire che la psicoanalisi, freudiana e postfreudiana, poté rappresentare nonostante i suoi limiti un analogo tentativo di sviluppo e rinnovamento delle prime indagini positive sulle nevrosi. Ma ciò, sia chiaro, non vuole riferirsi a certe banali associazioni tra la concezione letteraria di Joyce e la psicanalisi). Nella narrativa di Joyce l’esistenza non si attua più lungo una linea approssimativamente divisibile nei tre segmenti di passato, presente, futuro. Egli mette in atto un «campo» estremamente più complesso. Qualcosa, ripeto, come una sfera: che si aggrega e dispone ininterrottamente nell’attuazione della somma degli elementi (accaduti, in corso, o possibili) sollecitati anche minimamente.
Diversamente da quanto avviene a Proust, le immagini allusive di Joyce procedono sempre nel folto intreccio che costituisce la realtà organica. Il loro percorso può essere estesissimo, ma è sempre possibile ricostruire una specie di logica di relazioni contemporaneamente attive. Ciò dipende dal fatto che, in luogo della memoria proustiana, Joyce mette in atto nei suoi personaggi una specie di «coscienza totale». Insisto su questo punto perché mi sembra molto importante. Ogni coscienza attuale può agire solo ritardandosi in memoria nei personaggi proustiani. Ogni memoria sembra risuscitare in coscienza attuale in quelli di Joyce. L’immagine di Proust, come ho già detto, dipende dall’agevole insistere della memoria sulle ombre lasciate dalle sensazioni e dai fatti nel passato. Era una deformazione sempre in armonia con i termini della «verosimiglianza» tradizionale, o meglio, sempre in armonia con la tradizionale licenza concessa alla memoria. (Non è addirittura un luogo comune l’idea di un «potere deformante» del ricordo?). L’immagine di Joyce dipende invece dall’ostinato lavoro della coscienza attuale, disponibile alla totalità delle possibilità e dei fatti. Tanto che l’insistita estraneità di certi elementi, che entra sovente in gioco nella narrazione joyciana, testimonia dell’integrale contemporaneità di valori considerata dalla sua visione. E finisce sempre per far funzionare un complesso di associazioni fortemente espressive e reali: anche se apparentemente del tutto «inverosimili». (Dato che, come ho detto, il luogo comune è portato a concedere alla memoria evasiva tutta la libertà che nega alla coscienza integrante. Per la legge del «minor pericolo», forse. O più probabilmente a causa delle particolari condizioni che impediscono effettualmente la libertà in se stessa).
Quella coscienza totalmente attuale agisce, nella narrazione di Joyce, anche nei riguardi dell’accaduto più o meno lontano. L’inconscio dei suoi personaggi è una somma di valori oscuramente ricuperati da ogni direzione del tempo non a una centro immobile, ma a un nucleo vitale. In quello che chiamiamo inconscio Joyce scopre come si agiti verso una forma anche il futuro. Ricordi, fatti e sensazioni presenti, possibilità, vengono in tal modo riconquistati a quella sfera organica di vitalità che no delimita, ma dà valore ai suoi personaggi. La memoria proustiana componeva una sottile archeologia del personaggio (dove la suggestione andava al passato e poi ne derivava). Il monologo interiore di Joyce – per insistere su questo punto molto evidente – attua una specie di cronaca totale, d’integrale informazione disponendosi in una nuova dimensione del tempo. Con esso, la radioscopia del personaggio rivela la costituzione oggettiva e sempre direzionata della sua intimità.
Il monologo interiore non «disperde» in tal modo il personaggio nel modo. Indica piuttosto come il personaggio sia individuato dalla particolarità degli elementi che in esso entrano in rapporto, e dal loro particolare continuo riaprirsi. (Dove anche la «volontà» del personaggio non si presenta come una categoria riconducibile ad uno schema astratto: è comprensibile solo in una serie d’interazioni, nell’ambito delle quali essa è stata «catalizzata» e nell’ambito delle quali, d’altra parte, essa si trasforma a sua volta in azione sollecitante). Il Pouillon, nel libro già citato (pur trascurando stranamente un’indagine accurata dell’opera di Joyce in relazione al tempo del romanzo) scriveva che il monologo interiore di «Ulisse» «aveva come fine la trasparenza assoluta» del personaggio. Un’immagine utile solo se le si dà un senso ben preciso. Se si tiene cioè presente che il monologo interiore di Joyce non attua un’estroversione del personaggio: ma piuttosto una sua integrazione al reale in atto. (Quanto ho detto sul monologo interiore non tende a proporre l’esemplarità di questo procedimento narrativo, quanto a chiarire il particolare valore che esso mi sembra poté avere nella narrativa di Joyce).
Non è nelle mie intenzioni opporre a un’esaltazione del valore del passato di Proust, un’esaltazione del valore del presente in Joyce. Voglio piuttosto dire che Proust stabiliva effettivamente l’organizzazione definitoria di un segmento del tempo (come esso veniva concepito nella narrativa tradizionale): il passato.
Mentre Joyce, come ho accennato, suscita un campo temporale estremamente più complesso: un’attualità che comprende insieme tutte le concrete possibilità del personaggio: vivo proprio perché (e come) era vivo, lo è e potrà esserlo. Così mentre Proust aliena il personaggio al suo essere continuamente passato Joyce lo libera nella totalità dei valori della sua esistenza. In tal modo il tempo della narrativa di Joyce è un tempo dinamico e dinamizzante, che arricchisce il personaggio, disponendosi in esso, piuttosto che consumarlo dall’esterno. (All’immagine del «fiume del tempo» si potrebbe sostituire dopo «Ulisse» quella di «sangue del tempo»). E in tal modo una solo giornata diventa un’intera giornata.
Parlando in termini più generali, si può dire che Joyce ha cercato di attuare con la sua opera l’organico comporsi del tempo in valori variabili estremamente liberi, perché si è reso conto che il tempo segue una sola misura: quella del dislocarsi vario e relativo dei personaggi nel mondo e col mondo, così, la vecchi legislazione psicologica lascia posto ad una concezione più concerta e complessa. La sottile dissoluzione operata da Proust entro il corpo delle forme psicologiche sostanzialmente tradizionali, ha portato una certa narrativa alle sua conclusioni. Chi insiste per questa strada, e la sviluppi rigorosamente, mi sembra possa soltanto pervenire ad un’analisi psicologica di fatti atomici privi di significato racchiusi in una altrettanto insignificante scorza. Il personaggio tradizionale, dopo Proust, appare compromesso in una sproporzione: tra un’apparenza unitaria per convenzione e un processo intimo anonimo (complicabile meccanicamente all’infinito). Joyce ristabilisce la «figura» del personaggio ribaltandolo nel mondo. Chi è Bloom? Finalmente un personaggio che non è possibile ricondurre ai «Caratteri» di Teofrasto né a quelli di La Bruyère, e neanche comprendere in qualsiasi supplemento aggiornato (che mi sembra felicemente improbabile) alle suddette opere. Bloom è «semplicemente» ciò che ha voluto vuole e potrà volere. Non è un personaggio che si staglio contro un tempo prospettico. È un personaggio la cui autentica durata si dilata, si restringe, si involve sempre a confronto di un’oggettività e una possibilità complete. Un personaggio tenuto in vita e non colo composto nella narrazione.

Conclude Tadini:

6. «Ulisse», dunque, mi sembra ancor oggi uno dei libri capitali per lo sviluppo di una narrativa nuova. Per quanto riguarda il rema specifico di questa nota, esso ci mostra, ripeto, che il problema del tempo nel linguaggio narrativo contemporaneo si deve riportare naturalmente ad un problema generale di concezione del personaggio. Alla necessità di una sua nuova costituzione: risolvendolo senza residui nella complessità del suo esistere. Chi astrae un meccanismo cronologico, di qualsiasi tipo, rischia di non intaccare minimamente la sostanzialità tradizionale del personaggio narrativo. E può riuscire a deformare soltanto un personaggio che è quello dato, con passioni gesti e atteggiamenti tradizionali. Del resto tutta la storia dell’arte e della letteratura contemporanea potrebbe essere fatta separando gli artisti che si sono limitati a deformare l’immagine tradizionale del personaggio da quelli che hanno tentato di costituire il personaggio in modo nuovo.

7. Durante un incontro col pubblico a Milano, tempo fa, alle domande che gli facevano sulla tecnica della sua narrativa Faulkner continuava a rispondere: «Quello che m’interessa è la conoscenza del cuore umano». Questa nota voleva praticamente cercare il significato più emozionante e più probabile di queste semplicissime parole. Emilio Tadini

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Francesco Tadini ringrazia e augura a tutti buone feste e buone letture! Ai frequentatori del sito dell’archivio Tadini  , situato presso l’associazione Spazio Tadini di Milano: www.spaziotadini.it - http://spaziotadini.wordpress.com/ , un augurio davvero speciale!!

Francesco Tadini


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