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Francesco TADINI: l’umorismo è soltanto il Comico che si ritrae dal suo rapporto siamese con il Tragico – Emilio Tadini, 1985, Sul comico

Creato il 07 aprile 2012 da Francescotadini @francescotadini
Francesco Tadini, archivio Tadini

Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini, Maschera, acrilici su tela,1985, 73x60

Francesco Tadini: dall’Archivio Tadini segue, qui, un testo scritto per un catalogo del 1985Sul comico, in Emilio Tadini, Opere recenti, mostra, Galleria Giulia, Roma.  ”(…) I dipinti di Tadini non sono ambigui, sono complessi; non sono letterari ma sono colti ; Tadini vuol riscattare la cultura di immagini ad una precisa dignità, vuole che le due vicende, quella pittorica e quella letteraria, trovino un punto di intersezione, che è appunto quello del metodo di racconto, il loro è un rapporto di strutture.”, scriveva Arturo Carlo Quintavalle. Tadini stesso esordisce con una frase di straordinaria chiarezza: “… tra le parole di questo testo e i miei quadri potrebbe esserci un rapporto simile a quello che si stabilisce fra due viaggiatori, piuttosto diversi tra loro, che sono diretti verso lo stesso posto.” Questo viaggio a due è impresso in tutti i romanzi, le poesie e i quadri di mio padre e riguarda, spesso, il binomio Comico / Tragico. O, forse, sarebbe meglio dire l’opposizione di due forze che viaggiano insieme – che non avrebbero nome, se non in funzione reciproca – capaci di attrarre qualunque immagine, proiezione, figura, forma le si avvicini. Binomio magnetico…  -  Emilio Tadini, 1985, Sul comico > Non ho scritto questo testo per parlare dei miei quadri più recenti. Questa non è né una interpretazione della mia pittura né il tentativo di tradurre certe immagini in parole. Di che cosa parla, allora, questo testo? Questo testo parla di cose di cui la mia pittura cerca di occuparsi con le sue figure. Tra le parole di questo testo (più qualche altra parola pensata soltanto a metà, o mezzo dimenticata – o anche soltanto troppo ridicola per essere detta) tra le parole di questo testo e i miei quadri diciamo che potrebbe esserci un rapporto simile a quello che si stabilisce fra due viaggiatori, piuttosto diversi tra loro, che sono diretti verso lo stesso posto. (Al quale, naturalmente, non è detto che possano arrivare.) >> 

Nel testo per una mia mostra del 1979 (la mostra si intitolava Angelus novus) avevo annotato qualcosa sul comico: “È dal comico che viene lo sguardo che può fissare il tragico senza restarne abbagliato.” Ma è sbagliato. Avrei dovuto scrivere: è dal comico che viene lo sguardo che può fissare senza restarne abbagliato la vista che abbaglia il tragico. Nel testo per quella mostra avevo scritto anche: “Nel comico ridiamo di ciò che è presente come se ci riferissimo non a un essere autentico (alla verità) ma al niente.” (Dipingevo figure con le ali e grossi nasi rossi da carnevale e intorno cose in fiamme.) Tragico e comico non si contrappongono. È come se fossero due funzioni dello stesso organo. O due facce della stessa testa.

Il comico mette a confronto persone, atti, valori, con “qualcosa”. Con che cosa? Diciamo che è come se il comico esponesse tutto quanto alla luce accecante del niente. (Questo vorrebbe anche dire che il comico – per come è fatto – può resistere a quella luce, a quelle temperature.) La classica situazione comica della caduta è un analogo della dialettica che si pone in atto nel tragico fra ordine e disordine, connessione e sconnessione, integrità e lacerazione. Una specie di piccola morte… E ridere di uno che cade non vuol dire eludere il problema – o consolarsene. Vuol dire letteralmente vedere per un attimo le cose nel niente. E dal punto di vista del niente. Il comico si dà nello spettacolo di una persona ridotta a cosa in quanto il comico si dà nel vedere le cose dal punto di vista del niente. In questo senso potremmo dire che nel comico arriva a compimento quel che nel tragico è ancora disperazione intrisa di nostalgia. È proprio vero: la comica è finale.

Ogni figura, prima di indicare un significato, mostra se stessa e basta. E così rivela la propria natura di enigma. Ogni figura, in quell’attimo originario, funziona come una macchina per produrre nel visibile la pura potenza irriducibile dell’ignoto in quanto tale. È così, certo, per le figure dei dipinti. Forse è così per le figure del sogno. Enigma … Diciamo pure indovinello, che va benissimo lo stesso. Ma un indovinello che per un attimo è cieco, impenetrabile. Poi (ma quell’intervallo di silenzio e di buio è così breve che non ce ne accorgiamo quasi mai), poi arriva per fortuna il corteo un po’ carnevalesco di tutti i significati, con una gran confusione di maschere, e sbandamenti, e cadute – e tutto quel fracasso… Ma il comico, mi sembra, era già lì da prima. Proprio nel marchingegno di quell’enigma, di quell’indovinello – in quel fulmineo teatro di ombre.

Tadini

Tadini

La pittura produce una sostituzione via l’altra. (Ma non lo fa ogni parola, ogni segno?) E noi non sappiamo neanche che cosa diavolo fosse la cosa sostituita. (La cosa “nuda”? La cosa irrappresentabile? La cosa impresentabile? Hai voglia a prendere a martellate il simulacro che ci troviamo davanti: quello non parla.) Non è forse qui il modello di tutte le trame, di tutti gli intrecci? È come se il comico mostrasse in qualche modo di saperlo. La Grande Commedia degli Errori! Tutti scambi ed equivoci che, nonostante le apparenze, non si danno fra persone, ma tra significati.

Sottrarre alla scrittura e alla pittura – in quanto ogni scrittura e ogni pittura sono congegni allegorici – il “vero” verso cui tendono, il loro fine, il loro scopo. E costringerle a esprimersi in quel punto, sbilanciate su quel vuoto, con tutto il loro macchinario evidentemente inutilizzabile, e vedere che cosa succede. (Con la musica è forse più difficile. Forse dipende da quella specie di sublime ottusità che deriva alla musica dalla fondamentale e imperturbabile determinazione che essa mostra nell’andare da un punto ad un altro. Però Webern … Quella specie di silenzioso incespicare, quel balbettio, quel continuo fermarsi e ripartire…)

Tragico, comico… Tutto si basa su una sproporzione. (La dismisura!) È la stessa sproporzione che si fa sentire in ogni parola, in ogni segno? E c’è sproporzione fra lo stupendo eroe di una tragedia e quello che si chiama il suo destino, il suo eccezionale destino, così come c’è sproporzione fra il difettoso protagonista di una commedia e le sue banalissime vicissitudini. L’ironia sa, e mostra di saperlo, che le parole non arrivano a destinazione. (Gli sposta platealmente, alle parole, il punto di arrivo, le fa andare troppo avanti o le ferma prima – e soprattutto le devia su altri binari.) L’ironia mostra che le parole non sono destinate. Che sono cose fabbricate. (Artigianato! Per qualche branco di turisti!) Si può usare dell’ironia, nella pittura? Ci vorrebbe proprio, con questa valanga di figure – e di idee – dal gelido al viscerale, ma tutte seriosissime, che si vedono in giro. E può darsi una pittura comica? Forse si possono dipingere figure che cerchino di indicarlo, il comico – magari fuori del quadro. Forse si può soltanto mettere in evidenza il fatto che figura e storpiatura sono quasi la stessa cosa rispetto al famoso corpo perduto. (Storia dell’Arte!)

La seriosità è una forma di burocratizzazione dei nostri rapporti con il mondo. Ci fa pensare all’esistenza di una istituzione. Una preda ideale, per il comico. Di che cosa si alimenta, il comico? Il comico si alimenta, tra l’altro, di tutto quanto è prodotto dal kitsch. E guai se il comico non riuscisse a far fuori almeno una parte di questa sterminata produzione. Il sistema ecologico andrebbe a pezzi. (Quanto a questo, credo che il rischio ci sia, e anche sia alto.) Porre le “grandi domande” è come gridare qualcosa in un posto dove c’è un’eco molto forte. (Nella nostra testa, per esempio.) Come se la parola che torna – identica e trasformata dall’eco – fingesse in qualche modo di darsi come risposta. Ma anche questa non ha forse l’aria di essere una delle situazioni classiche del comico?

Il vero posto del comico ha l’aria di essere l’aporia. Proprio lì, in quel punto – dove il ponte che “doveva” esserci non c’è. E, naturalmente, cadono tutti in acqua. Kafka rideva, leggendo i suoi manoscritti agli amici. Forse potremmo dire che Kafka è arrivato al comico partendo dal tragico. Ma questo è il percorso naturale. La logica conclusione. È come un processo di crescita. Il vero e proprio farsi del soggetto (in tutti i sensi della parola “soggetto”). (La commedia che veniva dopo la tragedia, nel V secolo, in Grecia. Il cartone animato dopo il film drammatico – prima che una certa stupidità didattica sostituisse la “comica” con il documentario “istruttivo”. Come se non fosse abbastanza istruttivo abituarsi a vedere, una dopo l’altra, una storia tragica e una comica!)

Il comico non serve a far dimenticare le rovine che restano dopo il processo del tragico – e dalle quali il tragico si è sdegnosamente ritirato, rifugiandosi in qualche regno dello spirito sconfitto. Il comico serve come un manuale di sopravvivenza, fra quelle rovine. Il comico fa sì che il linguaggio non riposi – per stanco morto che il linguaggio sia. Lo fa correre all’infinito, gli fa prendere certe cappellate… Così nel comico l’errore – il primo, quello che sta a fondamento e modello di tutti gli errori possibili: l’errore di linguaggio – è posto in alto. Proprio come nel carnevale, quando un povero disgraziato diventava re per qualche giorno. Tra il polo positivo del tragico e quello negativo del comico scattano certe scintille! Tragico e comico mettono insieme una gran macchina di illuminazione. Se potessimo sopportare che funzionasse al meglio, non resterebbe un solo angolino buio. (Ma non è che la cosa ci attragga irresistibilmente.)

Cosmica è la rassomiglianza, diceva Pascal. E allora, l’eterno ritorno dell’uguale? Visto da questo punto di vista non è, quasi, da morir dal ridere? Una specie di gigantesco tormentone… Se il sublime si dà nello stare davanti a ciò che immensamente e brutalmente ci soverchia, e nell’alzare su di esso lo sguardo, e in quel guardare trovarsi in qualche modo liberi – allora si potrebbe anche dire che non c’è sublime che nel comico. Nel comico succede spesso che lo sconfitto, colpito e ricolpito, si rialzi puntualmente dopo ogni colpo. Sta sforzandosi di provarci ancora? Forse no. Ma intanto egli riesce in tal modo ad innalzare il suo ruolo alla dignità dell’indispensabile. E come ci riesce? Mettendo in atto i! semplice meccanismo della ripetizione.

Qualcosa come lo spirito si libera, in noi, nel comico, proprio nel momento in cui il comico ci mostra la sostanziale impotenza di cose come lo spirito. Dove sarà il trucco? A volte l’umorismo è il comico da indossare a ogni ora del giorno, da non smettere mai. Ma altre volte l’umorismo è soltanto il comico che si ritrae dal suo rapporto siamese con il tragico. Una convenzione redatta e sottoscritta una volta per tutte – ai primi brividi… Un surrogato. Cicoria al posto del caffè.

La volgarità è, per il comico, un alimento molto sostanzioso. Ma nel comico, come si dice, e tutta questione di forma. La forma del comico può sostenere le cose più basse al livello altissimo del sublime. Se viene meno la tensione di quella forma, allora la volgarità diventa la fine del comico – la palude in cui esso sprofonda. Allora il soggetto, che ostentatamente si umilia – o prevarica – in modo laido e meschino, finisce per produrre soltanto, nello spettatore, sotto il velo di un vacuo senso di superiorità sadica, il perverso piacere dell’identificazione masochistica. E l’ammiccare che scocca dalla figura che vorrebbe essere comica verso 10 spettatore non è altro che una richiesta di miseranda complicità.

A volte, nel tragico, lo spirito, con il suo arrovellarsi, finisce per dimenticarsi del corpo in sé e per sé. Il corpo gli serve solo come un deus ex machina a rovescio. E la morte violenta diventa un attrezzo scenografico, per consentire ai grandi acuti dello spirito o di posarsi, finalmente, dopo essere arrivati ancora un po’ più in alto – o di arrivare ancora più in alto nel lamento e nel lutto. Allora succede che il comico, quando è il suo turno, si metta a correre dietro al tragico portandosi in braccio il corpo. “Amico, guarda che cosa hai perso!” 11 fato! Edipo! Kafka! Appunto: il fato, il destino. Tragico e comico hanno a che fare con ciò che ci riduce a cose. Ed è nel comico che il fato si rivela come un apparato che ha a che fare con qualche trascendenza.

Caduto l’ultimo agonizzante, recitata l’ultima parola dell’ultima battuta, finita insomma la tragedia, il fato si solleva sulle ginocchia i pesanti paramenti e va di corsa a recitare la sua parte sul palcoscenico della commedia. E il suo ruolo non è poi così diverso. Il comico smaschera il fato. Di quella che nel tragico appare come una oscura volontà infinitamente superiore e spietata, ma pur sempre inventata a immagine e somiglianza della nostra mente e dei nostri sentimenti, il comico osa mostrare il funzionamento effettivo, da meccanismo impassibile e indifferente, da pura e semplice legge fisica. E qui si dà il sublime che appartiene al comico. (L’uso che il comico fa dell’osceno è probabilmente anche una delle forme in cui si manifesta la sua irresistibile tendenza a rappresentare il fato come meccanismo.)

In ogni risata agiscono insieme, per un attimo, due cose che hanno l’aria di essere addirittura contrastanti fra loro: una piccola presa di coscienza, e una specie di abbandono… La risata è, nei confronti del comico, come una lezione imparata. Il fato è proprio come un’invenzione da comica del cinema muto. È una forza che costringe le persone a trasformarsi in cose. E, come nelle comiche del muto, il fato si serve soprattutto di due effetti: quello della accumulazione e quello, fondamentale, della accelerazione. (Lo fa anche nella tragedia, quanto a questo. Quando disastri sufficienti per un anno e per un’intera città si precipitano, in un attimo, giù sulla testa di un solo individuo.) Il che vuol dire che le comiche del muto mettevano in scena qualcosa che assomigliava molto da vicino al fato. Ma si può anche dire: quelle comiche ci hanno mostrato che la velocità in se stessa potrebbe essere la sola metafora che ci è rimasta per alludere a quella cosa che un tempo si chiamava fato, e per avere, con quella cosa, qualche rapporto – per metaforico che sia. (Questo spiegherebbe in parte il vero e proprio culto che noi tributiamo alla velocità in tutte le sue forme. E anche tutti i sacrifici umani che le offriamo.)

C’è un terzo effetto di cui si servono “allo stesso modo” il fato e le comiche del muto. È l’effetto rovina. Quando tutto quanto crolla in un colpo, e va a pezzi, quando la distruzione si attua tumultuosamente e a grande velocità. Le comiche del muto mettevano in scena ibridi – ibridi fatti a metà di carne e ossa (e un minimo di sentimento – come una specie di alibi) e metà di elementi meccanici. Quella del centauro, in confronto, era una figura affabile, tranquillizzante, addirittura ecologica. La natura animale come immagine estrema della diversità – figuriamoci! Pensate alla mostruosità che siamo riusciti a mettere insieme noi: ibridi metà uomo e metà cosa… E non solo nei film! Il tragico si dà un gran da fare a sforzarsi di lottare con il niente. Il comico, nel niente, è come se ci fosse nato e cresciuto. (Per questo il brutto e lo sbagliato che sono nel comico non ci disturbano.)

Il tragico è il dibattimento. Il comico è la sentenza. Arriva la citazione. La prima e l’ultima. Ma ci vuole. È nella Estetica di Hegel. Nel tragico, “l’eterna giustizia si afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in modo che la sostanza morale e la sua unità si ristabiliscono con il tramonto delle individualità che disturbavano il suo riposo”. E: “Comica è la soggettività che porta in contraddizione e dissolve da se stessa il suo agire, ma rimane ugualmente in quiete e certa di s é . ” Mi sembra che Hegel dica che il soggetto, che nel tragico è posseduto, si possiede nel comico. Il niente, il negativo… Quella cosa lì, che le parole sembrano rifiutare nell’atto stesso di nominarla (un po’ come un servo vigliacco da commedia – che nega e ammette nello stesso tempo)… È solo di fronte al tragico e poi, definitivamente, di f r o n te al comico, che il negativo, il niente, può prodursi nel suo numero più spettacolare, da grande illusionista: trasformarsi, per qualche momento, nel suo opposto. Che sia quella, la figura del famoso essere? Una figura, forse. Certo il risultato di un processo. Questo, comunque, è quanto passa il convento. L’effetto comico (da comica del muto: accumulazione, accelerazione e tutto) nella scrittura di Celine. Che poi, a proposito, sarà una sostanza tragica, o comica? Tutt’e due le cose insieme, naturalmente.

Che sia stato il teatro a mostrarci il tragico e il comico allo stato quasi puro dipende forse dal f a t to che nel teatro si mostrano e si muovono non solo parole e figure, come in letteratura e in pittura – ma corpi. (E il cinema? Sono corpi, o figure – quelli che si mostrano in un film? Li vediamo, voglio dire, come corpi o come figure? 0 li vediamo in una specie di ambiguità – in una “terza f o r m a ” ? Che proprio questa sia la domanda buona per arrivare a capire ancora qualcosa a proposito del cinema – e della fotografia?)

Comico, in qualche modo, è, nella tragedia greca, il coro – sempre pronto a spettegolare su quella dismisura che il tragico continua a mettere clamorosamente in scena. (Comico è l’effetto della presenza del coro, voglio dire, non le parole che il coro pronuncia. È forse l’effetto di quella presenza a preannunciare l’arrivo immancabile della commedia finale.) Nel fenomeno del riso isterico che ci prende davanti a qualche terrore, in quel puro e semplice tendersi di nervi, è come se il corpo, dandosi a quelle risate da meccanismo, mostrasse in un suo modo oscuro, di “saper dove andare”. Il corpo è ciò che soprattutto sembra ostacolare l’impulso che, dal di dentro, sospinge con grande violenza il tragico a mostrarsi. Per il comico, il corpo è un magazzino di valori “disperati ” (ma non nel senso melodrammatico della parola “disperati”). Il tragico sembra usare parossisticamente dell’agire. Sembra abusarne, in modo furioso. Finché sembra che il tragico lo consumi interamente, quell’agire, che non ne lasci in piedi neanche l’ombra. Ma arriva il comico – e tra la polvere riesce a trovare, di quell’agire, residui, resti, poveri avanzi. Li compone, li ricompone, li moltiplica. Così la sua voce, fra quattro risate e le rovine, della scena tragica, può far risuonare parole come “malgrado t u t t o ” e ” c o m u n q u e “. Che umile magia! Perché il comico ha l’aria di potersi reggere per l’eternità? Non solo perché ride anche del tempo. Forse perché l’assoluta necessità della sua funzione è così evidente? È come se il comico spostasse un poco più in là quella parola ” F i n e ” che era apparsa, monumentale, gigantesca, sullo schermo del tragico. Come se il comico aprisse, allo ” s p e t t a c o l o ” , un altro spazio, supplementare ed essenziale. Nel niente. Ogni tragedia sembra concludersi con un definitivo e clamoroso “Allora basta! ” . Ma poi il teatro va avanti, continua regolarmente. Nel comico. (E non solo il teatro, quanto a questo.)

Perché ci siamo dentro, e, certo, lo scenario, per noi, è raccapricciante. Ma non è comico che la specie abbia prodotto il suo massimo sforzo materiale e mentale per arrivare a contrapporre al Big Bang cosmico il suo bravo Piccolo Bang planetario – quello della Bomba? Ma andiamo, un’estinzione generale, realizzata con questo mezzo (e come punto d’arrivo delle magnifiche sorti e progressive e della tecnica e tutto) sarebbe davvero il massimo della comicità. Per chi fosse in grado di guardarsi lo spettacolo dall’esterno e da infinitamente lontano, naturalmente. (E se fosse t u t to una specie di kolossal comico, messo su per divertire qualche immortale pazzoide?) C’è un nesso fra disperazione e comico. Un nesso c’è anche fra disperazione e tragico, lo sappiamo. Ma cambia qualcosa, dall’una all’altra di queste relazioni. Forse perché lo sforzo furioso del tragico è teso proprio a negarsi la conoscenza della disperazione. È come se per il tragico la disperazione fosse ancora, e nonostante t u t t o , un incidente. Smisurato, tremendo: ma un incidente. Tutto preso c o m ‘ è con il destino, il tragico, insomma, si impedisce di arrivare a destinazione.

Con quel suo gran darsi da fare, la figura del tragico non si sposta di un centimetro. Se si spostasse, finirebbe per arrivare ad incontrare la figura del comico. Incontrerebbe se stessa integralmente mutata nel comico. Comica finale? La comica è finale. Forse si potrebbe dire che ciò che nel tragico è disperazione diventa nel comico qualcosa che potremmo chiamare con il nome di “disperanza”. La parola disperazione nomina un agire. La parola disperanza potrebbe nominare uno stato. Uno si abbandona alla disperazione. Uno sta nella disperanza. (Anche se bisogna ammettere che l’equilibrio, lì, da quelle parti, ha proprio l’aria di essere instabile – e non soltanto a causa del gran ridere.) Nello spazio vertiginoso che dopo il tragico continua ad aprirsi nel comico, cose si fondano. (Si fondano! Si fa per dire…) Anche se giù in fondo ha l’aria di esserci il regno degli orfani, piuttosto che quello delle Madri…

Dal tragico al comico. Forse, tra scossoni e frastuono, questo è il viaggio, forse questo è il percorso. Ma un viaggio, un percorso, che si fa nello stesso spazio e nello stesso tempo. Per arrivare dove? Forse proprio a quello che cercavo di nominare con la parola disperanza – a questa specie di dislocazione e ristabilimento tutto in una volta, e una volta via l’altra… Nel comico si mostra una specie di giustizia. Che senso ha, qui, questa parola giustizia? Forse ha il senso che le diamo quando usiamo l’aggettivo che ne deriva in espressioni come: “il posto giusto”, “il modo giusto”, “il giusto atteggiamento”, “il punto di vista giusto”. (Questo, naturalmente, non vuole certo dire che nel comico agisca qualche specie di innocenza.) Siamo riusciti a determinare la presenza di stelle invisibili servendoci soltanto di una serie di calcoli. Ma che le cose nude e crude siano presenti, esistano, il nostro linguaggio sembra portarci continuamente e soltanto a smentirlo. Perché il linguaggio – per sua “natura” – deve pretendere di mettere al posto delle cose il proprio artificio. (E così spostate, le cose, dove vanno a finire? Cadranno giù, da qualche parte?) Questo è comico. Anzi, è forse qui che il comico si fonda. Dopo il furibondo trepestare del tragico, impigliato in toghe, panneggi e stoffe in subbuglio, è come se il comico, arrivando in scena, volesse farci capire che le nude cose esistono, da qualche parte. Nella parte davvero inesplorata del mondo – insieme ai leones di una volta. Sull’altra faccia della terra. Ma il comico non ne parla in modo esplicito. Non cerca neanche di indicarle, quelle cose. È questo il suo pudore.

Come in quel giuoco, che si ride, in cui chi “è sotto” deve far capire soltanto con i gesti una parola, un nome… Quante parole, che proprio non ci sono, ci sbracciamo noi, comicamente, a voler fare indovinare a tutti i costi agli altri – e a noi stessi – di continuo? Dunque, il comico viene dopo il tragico. Nel tempo. E da che cosa lo si capisce, che qualcosa è “passato”? La solita storia: aumento del disordine, appiattimento dei livelli di energia, lo zucchero che si scioglie nel cappuccino… Il Grande Modello Universale, a cui si uniforma ogni cosa – dalle tempeste solari alla lombaggine. Forse è nel succedersi a quel modo del “dopo” al “prima” che si apre lo spazio in cui è in grado di funzionare il congegno del comico. Questa potrebbe essere la trama per una buona farsa. Qualcuno crede di essere l’assoluto proprietario di qualcosa da cui, in realtà, è interamente posseduto. Da qui, equivoci, scambi, sorprese… Due, i personaggi: la specie e il linguaggio. E se parlare del comico fosse comico? (Scriverne, poi!) Ogni risata, a questo punto, è lecita.

Emilio Tadini

Tadini

Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini,Il museo che cade, acrilici su tela,1985, 100x81

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Francesco Tadini invita a visitare le mostre a Fondazione Marconi  e allo Studio Marconi ’65. Come dichiara lo stesso Giorgio Marconi in una prefazione del sito (LINK): “Ho aperto il 30 settembre 2010, in via Tadino 17, un piccolo spazio: Studio Marconi ’65 (come la mia vecchia galleria Studio Marconi che avevo aperto nel 1965 e chiuso nel 1992).

Francesco TADINI: l’umorismo è soltanto il Comico che si ritrae dal suo rapporto siamese con il Tragico – Emilio Tadini, 1985, Sul comico
Nel frattempo è nata la Fondazione Marconi che sta svolgendo un programma piuttosto esaustivo di mostre e antologiche relative al lavoro di un numero selezionato di artisti (tra i quali, per lunghi e fondamentali anni, Tadini, n.d.r.) di cui mi sono occupato nei miei quasi 50 anni di attività. Ci sono molti spazi e gallerie con proposte di Arte Contemporanea, ma non è facile vedere opere degli artisti degli anni tra i ’50 e i ’80. Penso quindi, in questo “piccolo spazio”, di dar modo al pubblico dei collezionisti, specialmente dei più giovani, di vedere e conoscere opere, progetti, disegni e anche multipli e grafiche, il lavoro di artisti del recente passato.” Giorgio Marconi

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Francesco Tadini, poi, come sempre, invita a non perdere d’occhio il blog di Spazio TadiniLINK – per rimanere aggiornati sulle mostre e sulle varie attività culturali dell’associazione – attualmente organizzate e dirette da Melina Scalise e Federicapaola Capecchi.  Scrive Pio Tarantini nella presentazione alla collettiva  Promenade, che resterà aperta presso Spazio Tadini dal 12 aprile al 5 maggio: Espongono quattro fotografi accomunati dalla ricerca sul paesaggio declinato in diverse versioni, dal realismo e dalla documentazione antropologico-sociale  alle visioni più concettuali o di raffinata ricerca formale: Alessandro Grassani, Daniele Portanome, Fabio Barile, Lorenzo Mussi. Nasce così Promenade: un progetto espositivo che fa forza sulla diversità di linguaggi per evidenziare il filo rosso che collega l’impianto narrativo dei quattro lavori. (…) Dalla scoperta e divulgazione del procedimento fotografico, alla metà dell’Ottocento, la mirabile invenzione permise a molti più viaggiatori di documentare i luoghi visitati che fino a quel momento potevano essere descritti soltanto dall’abilità manuale dei disegnatori e dei pittori. La storia della fotografia, da quel periodo a oggi, ha declinato nei modi più vari il paesaggio e i linguaggi contemporanei riassumono tutta la complessità accumulata in tanti decenni …

Spazio Tadini

Spazio Tadini, Milano, fondato da Francesco Tadini e Melina Scalise

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Francesco Tadini, ringrazia i numerosi frequentatori del sito / Archivio – anche per i suggerimenti inviati via mail – e consiglia un click anche ai due link seguenti:

E. Tadini, Comico / Tragico  - in occasione di una mostra nel 1986 alla Rotonda della Besana di Milano curata da Flavio Caroli e Renato Barilli. LINK

LINK (Metrocult: altro sito che raccoglierà, da qui in avanti, materiale inerente all’archivio Tadini e alle attività di Spazio Tadini).

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Francesco TADINI

Francesco TADINI

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