Jean Louis Schefer, PARIGI MILANO, dedicato a Emilio Tadini
Non so come riassumere, o in che modo raccontare un’amicizia di quarant’anni (trentotto per la precisione). Nessun dubbio sull’inizio. Una sera di primavera del 1965, il mio primo viaggio a Milano, mi trovo a partecipare a una serata in casa di Elio Vittorini, dove lui è solito ricevere gli amici, giovani intellettuali, artisti, poeti. Accoglienza cordiale e malinconica: «Allora, Schefer, benvenuto a Milano!» subito temperata da una specie di pianto rituale infinito sulla inesistenza alimentare dell’Italia del nord: non un vino degno di questo nome, il pane ridicolo (queste orribili michette), la carne non esiste (qui non sanno nemmeno che cosa sia la carne), un unico formaggio più o meno morbido. Ginetta Vittorini tenta di correggerlo: la pasta (smorfia di dubbio di Vittorini) e la verdura, noi mangiamo molta verdura. Coro di approvazione da parte della maggioranza dei presenti. Segretamente divertito dalla scena (e completamente indifferente alle preoccupazioni alimentari), sono pronto a diventare quasi vegetariano per diventare milanese, cioè, prima di tutto, scappare da Parigi. Tento una sortita letteraria nella conversazione alla fine della serata, senza grande successo.
Da allora vivo la mia vita parigina come una specie di esilio o di noia perpetua gravata da obblighi intellettuali: ho l’impressione di interpretare un ruolo di controfigura in una rappresentazione a porte chiuse in cui si recita una commedia strutturalista. Recito la mattina e mi annoio la sera. Pochissimo entusiasta del formidabile slancio di libertà nato dal maggio del ’68 (ho abbandonato comunque, come tutti, la cravatta), per nulla smosso dalla tardiva ondata del pensiero neo-cinese (l’uno si divide in due), scrivo un libro su sant’Agostino, mi interesso al diritto romano e poi… ritorno periodicamente a Milano per parlare con Emilio. Di che cosa? di tutto, progetti, cinema, opere in corso, della sua pittura, delle donne. Insomma per niente, per parlare con un amico e ricominciare, stranamente, in questi primi impegni di una vita adulta, i momenti di grazia di un’adolescenza: guarirci ironicamente, seriamente, della stupidità ordinaria del mondo, allora così bene rappresentato nel mondo intellettuale, talmente privo di equilibrio durante quegli anni e talmente privo di buon senso che l’artificio, il sofisma, sembravano quasi certificati o permessi di pensare.
Che cosa posso dire meglio di così? In quei pesanti anni Settanta, Emilio è stato un’intelligenza raffinata gentile, disponibile come nessun altro, uno humour benefico salutare in un momento di costruzione scolastica che confinava con l’assurdità più totale. Una complicità mai abbandonata e una fedeltà fraterna che ha anche conosciuto qualche momento di frizione. E che in Emilio c’era una forza sempre disponibile e una intelligenza straordinaria della vita, un inestirpabile buon senso, che era allo stesso tempo padronanza del gusto e rettitudine morale: credo che ci siamo molto divertiti in quegli anni di produzione teorico-politico-poetica di qualsiasi tipo; ci voleva quello humour per vedere che il mondo intellettuale e artistico si comportava massicciamente come le vittime degli universi sdoppiati dei romanzi ordinari di fantascienza.
E forse era questa la ragione principale dei miei viaggi Parigi-Milano nel corso degli anni. Ero sicuro, arrivando nella casa di via Jommelli, del calore dell’accoglienza, della vivacità, mai venuta a mancare nel nostro amico e, sicuro, anche, di dimenticare quella specie di clima poliziesco incomprensibilmente installatosi nell’avanguardia parigina. Lo ammetto, il beneficio di questa amicizia è stato qualcosa come la salute e una vera intelligenza della vita. La straordinaria capacità di lettura di Emilio non è stata il minore dei benefici: per anni è stato il mio primo lettore, rapido, sottile, generoso; nessuna stranezza ha potuto scoraggiarlo perché a poco a poco mi è apparso in tutto questo: lettore, melomane, pittore, poeta, esercitava attivamente e contemporaneamente la sua opera e i prolegomeni della sua opera.
L’ho seguito un po’ con la convinzione che non gli importava, in ciò che faceva, di cogliere la totalità, oppure opere apparentemente ben divise in periodi, ma i movimenti;che questo poeta scriveva la forma improbabile ed evidente del romanzo nuovo (non per rarefazione ma per sovrabbondanza) e che il romanziere diventava, sempre di più, l’illustratore arguto di quelle visioni di lettore (passeggere, instabili, sfidando la logica dei piani, delle successioni, delle proporzioni delle figure). E che una felicità di semplicità in questa audacia poteva risiedere nell’immagine di un mondo che i bambini comprenderebbero (insomma, quello che Giambattista Vico chiamava “l’evidenza poetica”).
Passata l’estrema sofisticazione di una cultura, una volta integrata la sua ricchezza, una volta persuaso che le sue contraddizioni devono coabitare, occorre una certa età, una lunga pratica delle forme, del pensiero nelle forme (plastiche, musicali) per comprendere e arrivare a realizzare che tutto quello che facciamo (romanzi, poesie, musica, pittura) è per sua essenza destinato a un mondo di bambini. Cioè l’opera colta il più vicino possibile al momento della sua produzione: che si tratti dell’opera che tentiamo, quella che organizza e mangia la nostra vita, e quella di cui siamo per caso non gli ereditieri ma gli occasionali destinatari nella storia.
Credo che sia l’audacia più bella dell’opera di Emilio, pittore e scrittore. Giovani, cerchiamo in principio di mettere ordine nel mondo, di orientarci nella confusione simbolica della storia; giudichiamo, stimiamo il vero e il falso senza altro criterio della redditività di vita delle forme poetiche; andiamo poi, ed è l’avventura stessa di un’opera, verso il mondo bambino che ne ha seminato il germe e nel quale si sviluppa tutto il futuro e tutta la speranza di un’umanità che viene nel linguaggio.
Abbiamo spesso parlato, nel corso degli anni, dello stato oscuro delle opere nuove come di un segno del futuro impresso nelle stesse. E tuttavia constatiamo con il tempo passato al lavoro che una forza di semplificazione (che proceda dall’abbondanza e non dalla mancanza) non cessa di inscriversi nelle opere come se il volto stesso del loro progetto dovesse mostrarsi e che, l’opera, diventasse contemporaneamente il ritratto della cosa desiderata e del bambino appassionato che non sapeva ancora disegnare né scrivere quando era ancora tutto intero nella poesia di quel desiderio che lo portava al mondo.
Strano gioco di alternanze, mai uguali tra il pittore e lo scrittore: l’uno ha sempre commentato l’altro, ha giocato il suo ruolo di ironia o di emozioni. E più il mondo bambino diventava semplicemente incomprensibile nelle sue figure, nelle sue macchie ritagliate, nei personaggi vagabondi, più la logica dello spazio diveniva indocile alle furbizie teatrali della “pittura”, più il mondo scritto, scosso e sostenuto come una foresta fitta di affetti, di passioni, costruendo una complessità labirintica di monologhi, di visioni, di ricordi, le linee temporali divergenti, più quest’opera dispiegava le sue evidenze, una ad una, come i fogli di un paravento cinese, cioè un libro grandissimo attorno al quale giriamo, al riparo del quale dividiamo la casa, dietro al quale possiamo dormire, o sognare, scrivere altri libri e viaggiare.
Trentotto anni di complicità, di scherzi, di intelligenza. Tutto qui? Ma anche le vacanze, i figli, le cene a Milano, a Parigi, le grandi risate, le ore di conversazione? Ma tutto il resto, ma l’essenziale? L’essenziale mi appartiene, non posso disfarmene. Questo si chiama, al di là dei ricordi, amicizia. E io ne ho ancora bisogno. Io sono rimasto qui, Emilio, e continuo quel libro, sai, di cui parlavamo. Jean Louis Schefer
Traduzione di Antonia Tadini
Francesco Tadini, archivio, opera di Emilio Tadini, Le bal des philosophes, 1994, matita e acrilici su carta da pacco intelata, 100x76, 2
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Bibliografia di Jean Louis Schefer:
Scénographie d’un tableau, Le Seuil, «Tel Quel», 1969
L’Invention du corps chrétien, Galilée, 1975
L’Homme ordinaire du cinéma, Cahiers du cinéma/Gallimard, 1980, réédité dans la Petite bibliothèque des Cahiers, 1997
Gilles Aillaud, Hazan, 1987
Jean-Claude Gallotta, groupe Émile Dubois, en collaboration avec Laurence Louppe et Claude-Henri Buffard, éditions Dis Voir, 1988 (ISBN 2906571067).
8, rue Juiverie, photographies de Jacqueline Salmon, CompAct, 1989
De la Peinture – De Pictura (1435) de Leon Battista Alberti, préface, traduction du latin et notes de Jean-Louis Schefer, Macula Dédale, 1992
La Lumière et la Table, Maeght éditeur, 1995
Question de style, L’Harmattan, 1995
The Enigmatic Body, Cambridge University Press, 1995
Du monde et du mouvement des images, Cahiers du cinéma, 1997
Main courante, P.O.L, 1998
Figures peintes, P.O.L, 1998
Cinématographies, P.O.L, 1998
Origine du crime, Café-Climat, 1985, réédité chez P.O.L, 1998
Choses écrites, P.O.L, 1998
Goya, la dernière hypothèse, Maeght éditeur, 1998
Main courante 2, P.O.L, 1999
Lumière du Corrège, P.O.L, 1999
Questions d’art paléolithique, P.O.L, 1999
Paolo Ucello, le Déluge, P.O.L, 1999
Sommeil du Greco, P.O.L, 1999
Images mobiles, P.O.L, 1999
Main courante 3, P.O.L, 2001
Polyxène et la vierge à la robe rouge, P.O.L, 2002
Chardin, P.O.L, 2002
Une maison de peinture, ed. Enigmatic, 2004
Figures de différents caractères, P.O.L, 2005
L’Hostie profanée, P.O.L, 2007
La Cause des portraits, P.O.L, 2009
De quel tremblement de terre… P.O.L, 2010
Le temps dont je suis l’hypothèse P.O.L, 2012
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Francesco Tadini – grato ancora a Jean Louis Schefer per il bellissimo ricordo del padre – raccomanda a tutti la lettura dei libri di questo grandissimo studioso.
… E ricorda, con Melina Scalise di non perdere di vista il sito e il blog di Spazio Tadini:
Grazie