Francesco Tadini: Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere – L’urlo e il furore, Faulkner e un testo di Tadini del 1960

Creato il 25 dicembre 2011 da Francescotadini @francescotadini

Tadini nel suo studio di Milano, oggi sede dell'associazione culturale Spazio Tadini

Francesco Tadini pubblica una prima parte (la seconda la ritroverete nei prossimi giorni sempre sul sito di Archivio Tadini: http://francescotadini.net/) di un testo di Emilio Tadini dal titolo Il tempo e il cuore del dicembre 1960. Preme sottolineare di questo articolo/saggio una frase di Tadini che ha una attualità viva e  permanente: “Certi critici letterari (e certi scrittori in fase teorica) compiono oggi lo stesso errore di quei critici d’arte. Dissezionano anatomicamente un cadavere letterario e trascurano l’esame del suo organismo vivente, dotato di moto e finalità.” Buona lettura.>

E. Tadini, Il tempo e il cuore, in “Inventario”, a. XV, n. 1 – 6, gennaio – dicembre 1960

1. Molti critici sembrano capaci di considerare nei casi che prendono in esame soltanto una serie di elementi inerti. Hanno orrore del movimento reale che dà vita a un organismo come un positivista ateo dell’800 poteva aver orrore dell’anima. Tranne che il positivista in questione agiva per via di logica, mentre quei critici sembreranno considerare la logica con estremo sospetto. Prendiamo un caso di critica d’arte. È difficile trovare un critico che non interpreti il cubismo come un nuovo sistema prospettico, come una specie di geometrizzazione totale dell’oggetto (e del personaggio) nello spazio. Quando si dovrebbero esaminare le ragioni profonde di un fenomeno così approssimativamente indicato, ci si avventura d’abitudine in una sconcertante tautologia: “I pittori cubisti volevano mostrare l’oggetto da tutti i punti di vista contemporaneamente.” (Che tra l’altro, data senza motivo, appare una decisione alquanto bizzarra se non del tutto irragionevole). Ciò equivale a spiegare la prospettiva quattrocentesca come un mezzo tecnico per dare profondità alla visione: altra tautologia. Mi sembra invece che la prospettiva quattrocentesca – parlando sommariamente – fosse una forma di rappresentazione che corrispondeva (consci o meno che ne fossero gli artisti) a una particolare concezione del mondo. In tal modo lo spazio agiva e si spiegava intorno a un preciso centro umano, intorno a un esaltato valore dell’individualità.

Potremmo dire che lo spazio ambientava e quasi echeggiava una sostanziale dignità del personaggio. Da parte loro i cubisti mi sembra invece “scomponessero” (mi riferisco soprattutto al primo periodo e a quello detto analitico) per attuare figuralmente la contemporaneità del valore di tutte le relazioni sensibili e intime che costituivano per loro un nuovo personaggio. Un personaggio non più isolato gerarchicamente in una separata dimensione spaziale, ma che assimilava il proprio spazio in una attualità completa. Un personaggio ce si caricava di una nuova significazione per quanto riguardava la sua consistenza-esistenza.

2. Certi critici letterari (e certi scrittori in fase teorica) compiono oggi lo stesso errore di quei critici d’arte. Dissezionano anatomicamente un cadavere letterario e trascurano l’esame del suo organismo vivente, dotato di moto e finalità. Un discorso che oggi si fa con notevole frequenza è quello sul tempo della narrativa. Ma questa nuova concezione del tempo viene troppo spesso descritta e spiegata con i rudimentali mezzi che venivano impiegati per enunciare le componenti del nuovo spazio cubista. Si rischia così di isolarla dal contesto significativo, di farne un meccanismo funzionante nel vuoto, un artificio. E si finisce stranamente per dimenticare che una nuova concezione del tempo non è, e non può essere, che un mezzo per costituire un novo aspetto della presenza umana. William James scriveva che “è la ricchezza del suo contenuto a costituire l’estensione del tempo.” Jean Pouillon, nel suo libro Temps et roman, ribadiva molto opportunamente un concetto della filosofia contemporanea: “La temporalità non è un essere, ma un carattere di ciò che si temporalizza.” L’errore di certi critici e di certi scrittori è invece proprio nel considerare il tempo come un’entità a sé stante. Mentre in altre parole si potrebbe dire che il tempo narrativo è ora una dimensione che si attua solo nell’essere occupata da una serie di accadimenti umani e nel suo integrarsi ad essi. “L’enigma del tempo”, sia detto per inciso, è un’immagine che non sembra reggere a questa semplicissima quanto ragionevole riduzione.

Un esempio degli errori cui può portare una simile critica disorganica è nella confusione che si fa abitualmente tra Proust e Joyce, messi frettolosamente assieme come i due scopritori di una nuova concezione del tempo narrativo. Credo che un certo chiarimento sia invece possibile se si esamina diversamente la cosa. Analizzando come cercherò di accennare un’effettiva organicità invece che un solo elemento astratto.

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3. Il problema centrale della nuova concezione del tempo nella narratività è in fondo quello di superare la cronologia (o addirittura la cronometria) convenzionale. (“Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere”, scriveva Faulkner in una citatissima frase di L’urlo e il furore). La cronologia è per il narratore un po’ come il linguaggio della realtà temporale: ma un linguaggio che rischia di soffocare i suoi contenuti (o i suoi scopi che siano), che finisce per sovrapporre una rigida simbolica ad una rappresentazione sensibile e sempre di nuovo compromessa. In questo senso una visione cronologica nella narrativa tradizionale ha contribuito a “destinare” un personaggio, definito a priori e al di fuori, nel meccanico funzionamento dei suoi gesti. Il “poi” e l’“allora” che – espliciti o sottintesi – marcano lo spostamento dell’azione in una narrazione di vecchio tipo hanno finito per corrispondere troppo fedelmente allo scatto delle lancette dell’orologio o al crescere dei numero su un calendario. Il tempo era considerato come il mezzo definito sviluppo psicologico. Così da un lato la definizione del personaggio astraeva da ogni carattere temporale: poiché il suo sviluppo si dimensionava in una specie di astratta area psicologica (o vagamente sociologica). Dall’altro un’esteriore misura del tempo tendeva a disporre tirannicamente dei dislocamenti effettivi del personaggio stesso. Due diversi ordini di leggi si innestavano uno sull’altro con risultati più o meno felici, ma certo del tutto insufficienti per un narratore contemporaneo.

4. Proust, è vero, ha cercato di far saltare la camicia di Nesso della cronologia convenzionale nella narrazione. Ma lo ha fatto dilatando una dimensione di quella cronologia. Si dice abitualmente che i suoi personaggi sono costituiti dalla memoria in una vertiginosa prospettiva a rovescio. È cioè l’accaduto a essere analizzato in tutti i suoi più nascosti depositi. Ma il fine di ciò consiste nel fatto che l’accaduto – una volta “ricostruito” – può investire e onorare finalmente il personaggio della proprio sostanzialità, labile ma omogenea. Il passato diventa il solo luogo deve il personaggio può farsi veramente percepibile e riconoscibile. Così i personaggi proustiani finiscono per farsi in una specie di esotismo temporale di se stessi e della realtà. Il presente si attua nella Recherche solo nel rassegnato calcolo finale di tutte le distruzioni.

Nell’opera di Proust il presente appare come un’occasione mancata del reale: cui solo la memoria, recuperandolo, può dar forma. O, più intimamente, il presente appare come uno stato di alienazione del reale alla caducità. La liberazione (quella che Proust concepisce come liberazione) è possibile solo nel passato: cioè quando quell’alienazione del reale alla caducità viene elevata da “circostanza” a stato unico e assoluto. Nella Recherche infatti non è il passato a essere ricuperato al presente e per il presente (o meglio all’esistenza effettiva del personaggio). È, inversamente, tutto il reale che può essere recuperato solo nel passato. Una specie di presbiopia vitale. Nella narrazione proustinana sembra quasi che “manchi il tempo” di vivere coscientemente l’attualità. È la memoria a configurarsi come unico tipo possibile di coscienza: anzi, a sostituire la coscienza. Così il futuro non può esistere, ogni finalità è estromessa e per così dire capovolta. Una conseguenza di questo fatto è nell’amputazione della volontà operata praticamente dal personaggio proustiano. L’immagine usata da Sartre a proposito dei personaggi di Faulkner mi sembra adattarsi meglio a quelli di Proust. Essi sembrano veramente camminare all’indietro: in modo che solo gli oggetti e i paesaggi superati e già lontani risultano loro percepibili e “utilizzabili.” (O un po’ come la gente che consuma un’ora solenne o felice a fare fotografie: avida non di reale, ma di quella simbolica del reale che è il ricordo). Per i personaggi della Recherche non è concepibile un progetto, (questo impasto di oggetti presi da ogni dimensione del tempo e proiettati in avanti nel possibile). Essi provano solo retrospettive voluttà, o rimpianti, o più naturalmente, le due cose assieme. Alla luce di queste considerazioni un’esemplare modernità della concezione narrativa di Proust mi sembra già dubbia.

Non credo sia poi, un’eccentricità affermare che Proust era entro certi limiti un naturalista. Poiché, nonostante tutte le apparenze, alla sua concezione narrativa era necessario disporre di elementi classificabili: soggetti incerti di avventure più che organismi di relazioni. Anche se, per quanto lo riguardava, solo nella malleabile integrità del passato egli riusciva a concepire il definitivo oggettivarsi del reale. (Il passato che si alza nella Recherche è in fondo una particolare dilatazione e intensificazione di una componente del tempo naturalistico: una specie di estenuata ora crepuscolare succeduta – per una serie di ragioni molto significative – al meridiano e un po’ rozzo presente di certi romanzi precedenti).

Si potrebbe opporre che la movimentata suggestione che sembra comporre le immagini proustiane e derivarne al lettore contraddice questa tesi. Ma le tensioni allusive che agiscono nell’opera di Proust non escono ma da quella definitoria prospettiva del passato. La loro qualità dipende dal fatto che l’atteggiamento essenziale di quella narrazione è la memoria: libera per sua specifica natura di premere a suo agio su elastiche parvenze: sulle ombre del reale nel tempo. (Una «libertà» molto particolare, senza esiti reali, cui non possono offrirsi conquiste oggettive, ma solo inconcrete alterazioni). Il più attivo intervento dello «sfumato» nella Recherche (a paragone di un romanzo naturalista) dipende dunque dal particolare mezzo immaginativo usato dall’autore. Ma la fiducia di Proust nella sostanziale classificabilità di una forma psicologica nel tempo, e nelle leggi che ne governano ogni alterazione, non è molto lontano da una concrezione naturalistica. Si potrebbe dunque dire che Proust applica certi principi naturalistici di osservazione a quello che per lui era lo sviluppo psicologico nel tempo. Così facendo egli allarga un campo di applicazione di quei principi: non ne sviluppa a fondo la struttura del metodo.

È d’altra parte  significativo che Proust rimanga fedele a una delle fondamentali leggi della narrativa naturalistica: quella dello «splendore e decadenza» del personaggio. Ma sempre per uno scrittore naturalista gli elementi determinati di quel processo erano una serie di circostanze, forze negative, o semplicemente «i casi della vita», Proust ne pone a origini e motore l’impassibile trascorrere del tempo. In questo caso egli sostituisce al pur embrionale senso oggettivo di un narratore naturalista una forza esterna, anzi in un certo senso trascendente. Per questa ragione gli accadimenti psicologici che animano e sostanziano la sua opera sembrano galleggiare in una atmosfera rarefatta. All’apparenza estremamente liberi: in realtà ostacolati dalla meccanica che deriva loro dall’assenza di ogni «sforzo», di ogni confronto interiore con una dimensione oggettiva: che è il loro totale asservimento al tempo come entità estranea e onnipotente.

Altrove mi sembra il punto più avanzato raggiunto da Proust. (Non sto certo parlando in termini di critica assoluta. Cerco piuttosto di considerare una linea di sviluppo che possa alla fine implicare una concezione narrativa di tipo nuovo). La complicazione, l’atomizzazione del fatto psicologico nel passato (resa possibile dall’assenza di quella che potremmo chiamare «la forza di gravità dell’attuale») raggiunge nell’indagine di Proust una tale intensità da dilatare la concezione tradizionale del personaggio fino a concluderla definitivamente. Dopo Proust sembra solo possibile una concezione radicalmente nuova dei rapporti tra il personaggio e i fatti, tra il personaggio e i suoi «atteggiamenti». Una concezione organica, che sia in grado di rivelare quali sono le forze che tengono in vita quel folto aggregato che è un personaggio. L’esame della temporalità nella narrativa di Joyce potrebbe chiarire il metodo con cui quella nuova concezione è stata fondata. (…) E. Tadini

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Francesco Tadini, ricordando di tornare a leggere la seconda parte del testo di Emilio Tadini, ringrazia tutti e augura buone feste ai lettori del sito dell’archivio Tadini  , situato presso l’associazione culturale Spazio Tadini di Milano: www.spaziotadini.it - http://spaziotadini.wordpress.com/ .

Francesco Tadini


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