Franco Farinelli, geografo
Viviamo in tempi in cui correre è diventato imperativo, molto più di osservare. Qualcuno dice che l’evoluzione umana è un percorso che si snoda lungo l’ascensione piramidale, attraverso ere che possono tranquillamente essere identificate come piani posti uno sopra l’altro. Qualcun altro asserisce che l’epoca del collasso della globalizzazione può rappresentare uno dei sommi gradini della piramide, in questa ascesa che pare essere giunta, dopo secoli, ad un punto di crisi. Questo grande mondo globalizzato è infatti profondamente segnato da un periodo buio e confuso, dove molti concetti apparsi insindacabili fino all’altro ieri sono posti ora in seria discussione. Eppure, sembra arduo immaginare un mondo diverso da questo circo malato. Un processo lento e inesorabile, primariamente composto da un equilibrio geometrico impostato sul confine, sullo spazio e sul tempo. La geografia, scienza mai approfondita e sempre troppo poco presente nel ventaglio delle nostre conoscenze, nasconde a tutti gli effetti la genesi della maggior parte delle questioni attuali, e svezza la gran parte della nostra quotidianità.
In effetti è diffusa l’idea di poter identificare i problemi che assillano l’uomo e la sua modernità, senza passare attraverso la conoscenza del territorio dove egli agisce, delibera e produce. L’esplorazione e l’analisi storica e geologica del territorio è qualcosa di molto complesso, talmente complesso da obbligare a spingersi in un cammino a ritroso in cui prima o poi bisogna fare i conti con il Sacro, con la fede, con i dogmi. Dogmi sacri, e dogmi apparentemente profani. Apparentemente perché, come dice Franco Farinelli, geografo italiano, docente universitario e Direttore di Dipartimento di Discipline di Comunicazione presso l’Università di Bologna: «Il territorio implica la presenza della dottrina cristiana. Bisogna passare attraverso la parola di Cristo per tentare di capire cos’è il territorio, una parola che deriva da “terrere”, ossia “esercizio del potere”, che doveva essere legittimato e giustificato in qualche maniera». Parliamo dunque di fede, di convenzione, di strumenti di lettura interpretativa che offrono modelli destinati non ad essere copia di realtà, ma a generare realtà. Un processo che aprirebbe finestre su qualsiasi campo scientifico, ma del quale preferiamo soffermarci parlando dell’esclusivo settore geografico e, dunque antropologico-culturale.
L’esempio in questione è quello della mappa. Dice ancora Farinelli: «Un giorno, leggendo la Divina Commedia, un filosofo si accorse di qualcosa che gli parve straordinario. È chiaro che per Dante la Terra è una sfera: egli inizia il proprio viaggio all’alba di un venerdì, attraversa tutta la Terra e a mezzogiorno del mercoledì successivo sbuca dall’altra parte a “riveder le stelle”, come abbiamo appreso fin da piccoli. Dunque la Terra per Dante ha senza dubbio una forma sferica. Però, argomentava il filosofo, a farvi caso questo non è più vero quando si tratta delle azioni descritte nel poema. Il mondo di Dante non è ancora quello che per noi il mondo è: una struttura infinita, dove la posizione dell’uomo e della Terra abitata dall’uomo è marginale, periferica, assolutamente trascurabile rispetto alla vastità dell’universo». Perché, dunque, ci fidiamo ciecamente delle mappe? «La modernità – spiega Farinelli – inizia proprio così. Con la cieca fiducia nelle mappe. Questo è un processo di assoluta complessità, che passa, appunto, per la figura del Cristo». Esempio tangibile, la polemica sulle radici cristiane dell’Europa, e sul concetto di Unione Europea. «I mappamondi – chiarisce il geografo abruzzese – dalla loro genesi, venivano rappresentati come abbracciati dal corpo di Cristo, con la testa che sormonta il globo, i piedi che spuntano dal basso, e le braccia che avvolgono la madre di tutte le mappe, da un lato e dall’altro, con le mani visibili. Questo è il passaggio che determina l’instaurazione della dogmatica fiducia nelle mappe». Estremità del corpo di Cristo, in coincidenza con l’estremità della conoscenza. Territorio come copia della mappa, e non viceversa. Questa è stata la grande innovazione della modernità, a partire dal post-Medio Evo. La spinta che ha dato modo all’uomo di convincersi della rappresentabilità del territorio. Questo è il punto focale in cui la modernità comincia a fare i conti non con il territorio, ma con la mappa, ossia la sua interpretazione.
Tentando di analizzare più a fondo la questione, emerge l’importanza determinante che la geometria applicata al reale ha avuto nei confronti del rapporto tra uomo e realtà circostante, definita, delimitata. Nel discorso sul “confine geometrico”, Farinelli spiega come fino a cinquecento anni fa il confine territoriale non si limitava ad essere una semplice linea di demarcazione, come lo vediamo oggi, ma, come spiega Farinelli, «una fascia dotata di una certa profondità, dove gli stati o i territori venivano a toccarsi, lasciando comunque una “zona di rispetto”, ove avveniva il contatto di elementi che non si riconoscevano né in una parte, né nell’altra». Tutto ciò si mantenne fino al 1700, quando gli Stati decisero uniformemente di applicare il modello geometrico al territorio, determinando lo spazio, così come oggi è conosciuto. Questa soluzione portò con sé diversi problemi: uno di questi, forse uno dei maggiori, fu quello della separazione forzata e, appunto, geometrica, di elementi portatori della stessa cultura. Un esempio abbastanza lampante è la situazione africana, e nord-africana in particolare. Territorio diviso su mappa e smembrato a tavolino, con tutte le nefaste conseguenze che adesso sono sotto gli occhi di tutti. Così, quando si parla di «Primavera Araba», si intende un processo unico, frastagliato però in più stati, abituati coattamente a sviluppare diversi modelli di apparato statale, pur avendo lo stesso denominatore culturale. Ecco perché oggi ci troviamo di fronte al riscontro di divisioni geometriche atte a tagliare popolazioni omogenee e unite dalla stessa matrice culturale. Oppure, per un processo contrario, trovare stati moderni e centralizzati, tesi a incollare forzatamente popoli e culture differenti tra loro. La cosiddetta “etnicizzazione forzata”, avvenuta soltanto dopo la pianificazione geometrica sulla mappa. Questo spiega come le capitali si trovino quasi sempre al centro del prototipo di nazione moderna e, addirittura, create dal nulla per facilitare questo processo (si pensi a Madrid, fondata dopo l’unità iberica sotto Filippo II, o a Brasilia, nata nel 1970).
Questo per creare un processo artificioso di centralizzazione. «Il nostro italiano – chiosa Farinelli – è un misto di due parlate: quella toscana, e quella romana. Le parlate centrali. Più si va all’esterno, più la situazione cambia, soprattutto dal punto di vista del patrimonio culturale». Quando si parla di unione culturale dunque, non si parla di un processo naturale, ma di un processo pianificato. Prima ancora del XVIII secolo, in cui l’Illuminismo determinò la nuova svolta spazio-temporale, si può andare a ritroso fino all’Italia del XI-XII secolo, e alla famosa questione della lingua unitaria, oggetto di dibattito tra gli intellettuali del tempo (si pensi al “De Vulgari Eloquentia” di Dante, o alle “Prose della Volgar Lingua” del Bembo).
Qual è, dunque, la funzione del confine geometrico? Lo scopo di questo grande processo di modernizzazione è stato, appunto, quello di garantire i tre principi che permettono ad ogni stato moderno di sopravvivere: omogeneità, continuità, isotropismo. L’isotropismo è appunto la tendenza di avere tutte le parti del proprio territorio che guardano verso una sola direzione: il centro appunto, identificato con la capitale.
Questo, fino ai giorni nostri. O meglio, fino alla frammentazione del mondo, avvenuta in concomitanza con l’avvento della globalizzazione. Un processo nuovo, che ha aperto una nuova era, la cui genesi si può indicativamente collocare, come dice Farinelli, nell’estate del 1969: «Quando tutti noi stavamo con il naso in su a guardare la Luna, perché ci stavano raccontando che la Luna stava diventando un’altra Terra», ignorando il fatto che negli stessi giorni, per la prima volta, due computer comunicavano tra di loro. Dunque, la globalizzazione non è intesa come velocità di spostamento, ma come annullamento dello spazio e del tempo. La globalizzazione non è ciò che ti permette di andare a New York in 6 ore, ma è ciò che ha permesso di condividere le stesse emozioni di un newyorkese durante l’11 settembre del 2001. La globalizzazione è ciò che permette di riunirsi premeditatamente in 950 città del mondo, come accadde nello scorso 15 ottobre.
Viviamo dunque in un mondo ancora legato alla modernità e alla cieca fede nella mappa, ma che si ritrova al cospetto della disintegrazione spazio-temporale, avvenuta al di fuori dei confini della carta geografica. Tutto ciò conferma la reale crisi di questi tempi, soprattutto per tutto quello che riguarda il flusso delle due merci più preziose: i soldi e l’informazione. Per il resto, viviamo in un mondo che continua a rispettare le regole del confine geometrico, e del concetto di identità da esso imposto. Concetto che ha ricondotto l’espressione dei propri diritti alla semplice dislocazione territoriale, e non più all’esclusivo patrimonio culturale, come avveniva fino al Medio Evo. «Un Sioux era un Sioux ovunque egli andasse», per dirla alla Farinelli. Il grosso ribaltamento della modernità e della geometria imposta stravolse tutto questo, e ora, che la realtà del territorio non ha più nessuna determinazione spazio-temporale, l’impreparazione dell’umanità al cambiamento sta facendo affiorare numerosi conflitti tra diverse identità culturali, ancorate ad uno spazio ed a un tempo che sono ormai concetti anacronistici. Stiamo dunque correndo – secondo logiche imperative – su un tapis-roulant che non c’è più e, in effetti, il rischio di farsi male è particolarmente alto.
(Pubblicato sul “Fondo Magazine” del 9 dicembre 2011)