di Ludovico Casaburi
I Black Keys sono due. I Black Keys sono dell’Ohio. I Black Keys non si fanno granché la barba (almeno uno dei due, l’altro ha gli occhiali). I Black Keys hanno tirato fuori un disco pazzesco. Il nome del disco in questione è Brothers.
Va bene, ok. Volevamo fare un po’ il verso alla tanto geniale quanto didascalica cover – la vedete qui a fianco – del sesto album di questo duo americano che fa un rhythm and blues così denso e saturo di se stesso, ma così denso e saturo che al primo ascolto vi cadranno i capelli. Una serie di pugni allo stomaco renderebbe meglio l’idea, crediamo.
Dopo la collaborazione con il produttore Danger Mouse (quello del folgorante Grey Album, in cui mixava Jay-Z e Beatles, ricordate?), i Keys scelgono di tornare al “ruvido”: sembra assurdo dirlo nel 2010, ma Brothers è un album che il CD non potrà mai capire e né tantomeno riprodurre. Un disco che praticamente “è” il solco di un vinile. Una valle di plastica e cera in cui si rincorrono Robert Johnson, Muddy Waters e John Lee Hooker sparandosi fucilate al sapore di blues.
Dan Auerbach e Patrick Carney fanno tutto questo: c’è chi li ha paragonati – forse a ragione – a dei White Stripes meno “nobili” quanto a intenti estetici, ma in realtà dentro Brothers c’è di tutto, ed è tutto sporcato di fanghiglia blues.
C’è un po’ di Moby, come nell’iniziale Everlasting Light, c’è il rock’n'roll più classico di Howling For You , e quello più pop di Too Afraid to Love. Ten Cent Pistol, poi, è la vera scena del crimine pulp. Nota finale per il singolone Tighten Up, un capolavoro. È da mesi che proviamo, senza successo, a star dietro agli accenti di batteria.
Black Keys – Brothers (V2, 2010)