Frattaglie in saldo: menu all’italiana #1

Creato il 17 ottobre 2015 da Cicciorusso

Era da un po’ che mi frullava in testa l’idea di scrivere una puntata enogastronomica di Frattaglie in saldo dedicata a dischi di band estreme italiane che mi avevano colpito o dei quali, per qualche motivo, ritenevo bisognasse parlare, accostando a ogni recensione un piatto a base di interiora tipico della rispettiva regione d’origine. A furia di rimandare la stesura, gli arretrati si sono accumulati in maniera incontrollata e la maggior parte delle uscite affrontate in questo succulento speciale in tre puntate risale all’anno scorso, in un caso addirittura al 2013. Ma un buon piatto di frattaglie richiede una digestione lenta e accorta, così come un buon vino va degustato con l’appropriata tranquillità. Buon appetito.

Tagliatelle alla bolognese con rigaglie: ELECTROCUTION – Metaphysincarnation

Inside The Unreal, esordio dei felsinei Electrocution, è uno dei dischi di culto della scena estrema italiana anni ’90. Death metal cupo, ruvido, claustrofobico e dotato di una certa originalità. Nonostante un consenso critico pressoché unanime, la band si suiciderà pochi anni dopo con l’ep Acid But Suckable, maldestro tentativo di scimmiottare le nuove tendenze del metallo moderno e contaminato dell’epoca nonché sorta di prova generale degli Addiction Crew, non disprezzabile combo nu metal dove ritroveremo il chitarrista Alex Guadagnoli e il batterista Luca Canali. Giacché dopo i 40 anni chi suona musica estrema tende a cercare la riconciliazione con le proprie origini, Guadagnoli pochi anni fa si è rimesso i combutta con i vecchi compagni d’arme (manca all’appello solo il suddetto Canali) e ha tirato fuori un nuovo full a nome Electrocution a oltre vent’anni da Inside the Unreal.

Metaphysincarnation non è un capolavoro ma riesce a suonare attuale, anche strizzando l’occhio ad alcuni tic del cosiddetto “technical death metal” di oggidì, e conservare allo stesso tempo un legame strettissimo e coerente con il passato. Al netto degli stacchi acustici e dei continui cambi di tempo, l’impostazione del riffing resta novantiana (ogni tanto mi sono venuti in mente i Vader, non so perché) e la batteria ogni tanto si lancia in pattern che sono thrash puro. Eppure non c’è nulla che suoni stantio o nostalgico. Buona anche la scelta dei suoni, nitidi ma non artificiali. I cori di Wireworm potrebbero farvi pensare ai Fleshgod Apocalypse ma secondo me è una giustissima citazione dei Rhapsody.

Da degustare con un Barbera Colli Bolognesi

Cima alla genovese: NECRODEATH – The 7 Deadly Sins

Avevo perso di vista i Necrodeath dopo il diseguale Draculea, che aveva interrotto l’impressionante striscia positiva segnata dai genovesi dopo la reunion del ’98. I difetti erano quelli tipici di un album di transizione: la bisunta tonaca death/thrash stava sempre più stretta agli autori di Into the Macabre, che avevano deciso di cambiare pelle ma dovevano ancora capir bene dove andare a parare. La risposta è arrivata con i due album successivi, Phylogenesis e Idiosyncrasy, che ho recuperato (e apprezzato) solo di recente e le cui sperimentazioni sono state il necessario presupposto del ritorno a un sound più diretto e aggressivo avvenuto con The 7 Deadly Sins.

Il decimo lp dei genovesi, che compiono proprio nel 2015 trent’anni di attività, è una riuscita conciliazione delle diverse anime dei Necrodeath. Tornano più prepotenti le loro classiche bordate slayeriane e quegli arpeggi che sono il loro marchio di fabbrica ma non vengono traditi i recenti deragliamenti in territori più ricercati. La natura di concept dell’album (ogni pezzo è dedicato a un peccato capitale e si arriva a nove con i recuperi di Tanathoid e Graveyard of the innocents, da Fragments of Insanity) lascia spazio a una varietà di registri che, nei momenti di maggiore equilibrio (Lust, forse la mia preferita), ricordano i tempi di 100% Hell. Peraltro mi sa che The 7 Deadly Sins è il loro disco migliore proprio da allora. I testi alternano l’inglese con l’italiano e il latino.

Da degustare con un Riviera Ligure di Ponente Ormeasco

Quarumi alla catanese: SINOATH – Meanders of Doom

Seguo i Sinoath dal lontano demo Still In The Grey Dying, la cui peculiare miscela di doom e black di scuola greca aveva fatto guadagnare ai catanesi una discreta notorietà underground anche al di fuori dei circuiti nazionali. Il successivo lp, il pur valido Research, non ebbe il successo sperato, anche per le limitate capacità promozionali della Polyphemus, loro etichetta di allora, e un anno dopo, nel ’96, arrivò lo scioglimento. La reunion avvenne nel 2003 per volontà del batterista Salvatore Fichera (presente sulla demo d’esordio Forged In Blood ma assente dai lavori successivi, così come il chitarrista Fabio Lipera, l’unico altro membro originario presente) e fruttò quattro anni dopo un altro full, Under the Ashes, che all’epoca mi sfuggì e il cui titolo forse allude al destino di una band che avrebbe meritato molto di più.

Seguì un altro lungo periodo di silenzio rotto solo oggi da un ep, Meanders of Doom, che speriamo apripista di qualcosa di più sostanzioso. Due pezzi lunghi, cupi e ammalianti che gridano “anni ’90” da ogni accordo. La componente black metal è quasi del tutto assente: a prevalere sono chitarre lugubri e desolate che evocano tanto il funeral doom opprimente alla Winter quanto i lavori più classici di Paul Chain, con un gusto personalissimo per le atmosfere morbose e desolate. Bentornati, carusi, ora mi aspetto un full.

Da degustare con un Etna Rosso Riserva

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