Il libro che ancora non è stato tradotto in italiano che ho battezzato per questo mese è il primo di una saga, si intitola Sixty-one Nails(The courts of the Feyre) e mi ha lasciata un po' perplessa.Da un lato vorrei mantenere un dignitoso controllo e dire che si tratta di una storia che deve moltissimo a Neverwhere di Neil Gaiman, che patisce alcune scelte troppo ovvie; una storia che, nonostante racconti di eventi che si svolgono nell'arco di una sola settimana, a volte è troppo lenta e trascinata, quasi diluita.Dall'altro è stata una lettura estremamente piacevole che mi sono goduta moltissimo, e penso sia il caso di focalizzarsi su questo.Andiamo con ordine, dunque: Niall Petersen vive una vita relativamente normale finché non viene colpito da un attacco di cuore nella metropolitana di Londra, viene soccorso da una donna che gli rivela come egli non sia completamente umano, lei stessa è molto più vecchia di quanto sembri e nelle sue vene scorre il sangue di Feyre, creature intrise di mito e folklore. Una di queste creature adesso sta inseguendo Niall e lui deve trovare un modo per salvare se stesso e sua figlia, scoprendo il segreto di due pugnali, sei ferri di cavallo e ricreando il rito dei Sessantuno chiodi.E fin qua niente di strano, il nostro protagonista, come tanti prima di lui, si ritrova all'improvviso catapultato in un mondo che gli è alieno e sconosciuto con una guida anche troppo loquace sui segreti di quel mondo, vedi l'educazione di Harry Potter ai misteri dell'universo magico e Virgilio, se vogliamo fare i faighi e portare un riferimento alto.Per Niall la guida è Blackbird, la quale vista schematicamente come personaggio soffre di una sorta di bipolarismo che la porta da un estremo emotivo all'altro nell'arco di pochi giorni. Alcuni nodi della trama (per esempio “sei parte del popolo di Feyre, abbandona la tua casa, il tuo lavoro e la tua famiglia e compi il tuo destino da eroe; oh a proposito, ti chiami Rabbit adesso”) avvengono in modo un po' troppo scontato e senza un bagaglio di spiegazioni per quanto riguarda la psicologia dietro al comportamento dei personaggi. Tanto per dire, io fossi stata in lui avrei fatto qualche obiezione, tipo “Non sarebbe meglio James?”.Inoltre, sempre per mantenere il distacco di cui parlavo poco fa, l'esposizione della storia soffre di una caratteristica di tradizione nobilissima, ma che io ho imparato a detestare: l'uso costante di anafore ed epifore (in entrambi i casi si tratta di figure retoriche che consistono nel riprendere, ripetendola, un'espressione o una parola, nel primo caso ad inizio di frase, nel secondo in mezzo o alla fine del verso).Mi spiego: hai presente il fatto che nella saga di Twilight(tu dirai, e grazie, che ci vuole a prendersela con Twilight. Hai ragione, ma ho un punto, abbi pazienza e adesso ci arrivo) ogni DANNATA volta che si parla del sorriso di Edward si dice che è crooked(sghembo)? Ecco, Sixty-one commette lo stesso errore, con alcune frasi che ritornano come il tema di una fuga. Ripeto, mi rendo conto che, a voler essere ottimisti, si tratta di una tradizione ereditata dai greci, ma finché è un aedo a decantare lunghissime gesta eroiche con formule ripetute è un conto; tu, romanziere contemporaneo, ti sbatti e trovi dei sinonimi.Ora passiamo al perché mi sia piaciuto e perché io abbia già in ordine gli altri due titoli della saga (Road to Bedlam e Strangeness and Charm): è un libro che dimostra e gioca con il fatto che a volte la realtà sia più incredibile della fantasia; ed è come giocare con un cucciolo di tigre, ci vuole fegato e può essere pericoloso.Si tratta di un debutto, ed è certamente una caratteristica non evidente, nonostante le frequenti scelte un po' di genere. Ma soprattutto si fonda su un'antica tradizione (esaustivamente spiegata nella postfazione) e su un amore profondo per le leggende, a volte dimenticate e altre volte in corso tuttora, di Londra. Quello stesso amore che ha generatoRivers of London e Neverwhere, appunto.Inoltre c'è una frase, che ha colpito me come tanti altri e mi sento abbastanza sicura di poter dire colpirà anche te: la storia si è appena mossa, siamo a pagina 338 di 7093 della versione Kindle (la cui formattazione non è impeccabile, mi sento di dare la colpa ad amazon e all'autoformattazione che impone a tutti i propri titoli) e la frase è “you're never going to be safe again”.Quando la leggi è come un pugno.Da lì in avanti il ritmo diventa più spedito ed incalzante, la storia una di quelle cui non vedi l'ora di tornare.Mike Shevdon segue Niall da Londra alle campagne inglesi e ritorno con un'eloquenza ed un'abilità descrittiva eccellenti e miscela la conoscenza del proprio ambiente, la fantasia e la tradizione in un mix che cattura l'immaginazione come una pozione magica. L'ingente quantità di ricerca che è stata necessaria è evidente, ma non pesante e ti porta a chiederti di quante tradizioni tu sia all'oscuro donandoti un'extra curiosità che è come un balsamo rinfrescante per il cervello. Quanto in un sogno al risveglio tutto appare meno sensato di quanto non facesse quando avevi gli occhi chiusi, tanto potresti cadere nella tentazione di discutere questo libro una volta concluso come ho fatto io.Ma questo non negherà il fatto che, immerso nelle sue pagine, tu sia stato rapito e portato altrove; né lenirà la tua sindrome di Stoccolma per chi ci sia riuscito.
Se c'è un autore di cui parlo spesso quanto di Neil Gaiman è Nick Hornby, quindi con l'annuncio del nuovo Sandman, un prequel, a scaldare i cuori per quanto riguarda il primo, ho pensato di dedicare questo spazio al secondo.Il titolo di cui voglio parlare è Non Buttiamoci giù. I caratteri che agglomerano i libri di Nick Hornby in un corpus omogeneo non sono quasi mai elementi base della trama. Quello che lo interessa, lo preoccupa e lo costringe a scrivere sempre di uno stesso tema è qualcosa di così ampio che bisogna farci caso per notarne il costante ritorno: la vita, il tempo e la morte (hai detto niente).Per questo i bivi che i suoi personaggi incontrano, a torto o a ragione, vengono sempre percepiti come episodi alla Sliding Doors, scelte dalle quali non c'è ripensamento, inizi che sono automaticamente anche delle conclusioni per via di tutte le alternative che rimangono sul tavolo.In questo libro più che in altri il tema risalta, spiattellato (riferimento casuale) davanti al lettore in modo molto ovvio: si tratta della storia di quattro personaggi che si ritrovano su un tetto, senza conoscersi, per suicidarsi saltando di sotto.Ciascuno è ovviamente carico ed appesantito dalle proprie motivazioni e stremato dalla strada che l'ha portato fin lassù: così c'è Martin che aveva una vita perfetta fatta di successo, matrimonio e due figlie che si è giocato tutto con una storia con una minorenne e, date le tremende conseguenze del fatto, ha deciso di aver rovinato la propria esistenza senza possibilità di rimediare. Poi c'è Maureen, la madre single di un figlio disabile. Ha sacrificato tutto alla cura per lui, ed è ormai stritolata dai propri problemi al punto che il suicidio sembra l'unica opzione.Jess è una ragazza di diciotto anni con una situazione familiare problematica che non ha amici, forse perché tende a dire qualsiasi cosa le passi per la mente senza alcun filtro né cura nella scelta dei vocaboli più appropriati, e come se non bastasse il ragazzo l'ha appena lasciata. E poi c'è JJ, un musicista fallito che ha lasciato l'America per vivere a Londra con l'amore della sua vita solo per arrivare lì e trovarsi scaricato a sua volta. JJ è il personaggio che incarna l'inevitabile collegamento con la musica, che, come succede sempre per Nick Hornby, è un elemento fondante di una vita che l'abbia conosciuta davvero.Da quel primo incontro, che avviene la notte di Capodanno, si apre la storia, perché i progetti dei “Quattro di Topper House” di farla finita si spappolano (di nuovo, ècasuale, staròpiùattenta) nel momento in cui si ritrovano insieme ad un presunto capolinea e si scoprono, anche loro malgrado, in un gruppo, non vedendo più quella solitudine universale cui avevano ceduto.“Aspetta, non dobbiamo mica decidere così in fretta”, una frase che ritorna (non con una dolorosa e tediante ripetizione, ma come una nenia) e che mette in pausa la decisione irreparabile che erano sul punto di compiere, salvo scoprire che sarebbe stata presa con imperdonabile leggerezza.Perché questo è un libro che racconta che cosa e perché possa portarti al confine con il baratro, poi cede e ti mostra per cosa restare. Piccolezze, briciole, il pensiero di un domani dove le cose migliorino, basta anche solo questo.C'è un'interferenza, in questa apparente nota positiva, che porta i personaggi principali ad interrogarsi se sia un bene o meno che abbiano aspettato a liberarsi del proprio gioco di carne e camminino ancora tra i viventi. Personalmente credo si tratti di un'invasione della realtà nella fantasia, quel genere di emorragia (adesso la smetto) del pessimismo di oggi all'interno delle storie di Nick Hornby che regala loro un sapore più autentico di altre. I dialoghi sono deliziosamente surreali ed è un piacere ascoltare voci così diverse costrette in campi, sia tematici che spaziali, così ristretti e precisi. Ma quello che a mio parere distacca questo libro da tanti altri è il ritratto multisfaccetato di una dicotomia spaventosa, quella della vita contro la morte e cosa convenga scegliere, quando sono entrambe così a portata di mano, quando i problemi sono tanti, giganteschi e rischiano davvero di avere la meglio, suggerendo la morte come avvenente alternativa. Questa storia non nega il postulato, non nega che l'impulso del “basta, non ce la faccio più” possa avvelenare qualsiasi tipo di mente, in particolari circostanze non necessariamente estreme, ma trova una risposta.A voler proprio essere negativi, non è una risposta definitiva quella che trova, ma se non altro si allontana dal parapetto e sceglie di bersi una birra prima di decidere una volta per tutte. Perché a volte, la cosa migliore da fare quando infuria la tempesta, è davvero avere la forza e la pazienza di aspettare qualche altra ora per vedere un raggio di Sole.