Una leggenda che sarebbe sbagliato e ingiusto attribuire solo alla pur ingombrante personalità del leader dei Queen o alle sue abitudini sessuali, così rivoluzionariamente ostentate in epoca di omosessualità low profile. Il mito è tutto musicale, fatto di talento e voce inimitabile, di sonorità folle e presenza scenica mai vista prima. Da Bohemian Rhapsody a Somebody to Love, da Who Wants to Live Forever a Under Pressure, una lunghissima serie di successi, una marcia trionfale verso le vette impervie del successo commerciale e di critica. Il bello di Freddie Mercury, in fondo, era proprio questo: metteva d’accordo i palati fini dei critici musicali con la pancia della gioventù mondiale degli anni Settanta e Ottanta. E non è cosa da poco, soprattutto in un periodo storico in cui i giovani si erano completamente isolati dalla società, dal “sistema”, per rifugiarsi nei paradisi illusori dell’ideologia, della droga o del sesso un tanto al chilo. Ma la leggenda di Freddie, che ancora oggi è vivissima e pulsa sangue e sudore in ogni angolo del mondo, evidentemente non ha sconfitto del tutto i pregiudizi omofobi e bacchettoni, se è vero come è vero che Zanzibar, dove nacque nel 1946, non ha mai voluto celebrarlo in alcun modo, né nel 2006 per i suoi 60 anni, né durante l’anno appena trascorso per i 65 e per il ventennale dalla morte. Il motivo, figlio dell’ignoranza e dell’estremismo più fanatico, è presto detto: Mercury non è un vero e proprio zanzibariano e, soprattutto, in quanto omosessuale non ha vissuto in maniera conforme alla Shari’a. Punto e a capo. E il silenzio più totale è caduto sul figlio più glorioso di quell’isola bella e povera.
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