Freeway

Creato il 21 maggio 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

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Nessuno è mai stato obbligato ad aspettare qualcosa nella propria vita. L’attesa è qualcosa che ci imponiamo da noi, quando reputiamo di non esserne pronti. Nessuno è obbligato ad aspettare un treno per mezz’ora, se sa qual è l’orario giusto per arrivare in stazione. E, quindi, sa quando è il tempo giusto per fare o non fare le cose, senza dover aspettare alcunché.

Mi rimetto a cavalcioni su questo cavallo di ferro: sarà la milionesima volta che vi appoggio il mio sedere. Ossia, non vi ci ho mai pensato: sarà la milionesima volta? Anche se mi fermo a pensarci, proprio non lo so… peccato, ad averci pensato prima avrei contato, mi sarebbe piaciuto festeggiare la milionesima volta che salgo su questi affari.

Ad ogni modo vi rimonto.

Ancora quel rumore sordo, caldo e vibrante che ti entra dappertutto, ancora l’aria che comincia ad accarezzarti dapprima timidamente, poi dopo qualche secondo si fa più ardita, più sfacciata e ti tocca ovunque. Se fossi al posto di Ricky, che sta guidando, penso che potrei addormentarmi con queste strade tutte dritte e lunghissime, stese in mezzo al deserto come un filo di lana come solo qui negli States sanno fare. E pensare che dieci anni fa non mi annoiavo mai a salutare i cactus che adesso mi sembrano spettatori indifferenti ai bordi delle strade. E sì, lo so che dovrei dire ‘cacti’, ma tanto, loro mica si offendono, no? Prendo una birra che spunta dalle borse della moto e non ci penso più: tanto quest’ affare è così comodo e lento che quasi potrei starmene qui a fare i cruciverba, mentre viaggiamo. Incrociamo una macchina, guardo un attimo chi la guida, ma non lo vedo. Boh, non mi interessa neanche più di tanto, chi vuoi che conosca in mezzo al deserto a più di mille di chilometri da dove siamo diretti? Penso che in quest’altra macchina che passa potrebbe esserci anche, che so, mia madre, o mio fratello, e magari non mi riconoscerebbero neppure loro.

Attraversiamo un piccolo paesino, quattro case buttate lì, come la vita di chi vi abita. Forse. C’è un piccolo distributore, si fa benzina: meno male, così posso fermarmi a guardare qualcos’altro che non sia un cactus o il deserto dell’Arizona. La gente fa finta di non guardarci, ma da dietro gli angoli delle case si ferma un attimo dalle proprie cose per osservarci meglio; dei ragazzini si avvicinano di più per guardare la moto, poi Ricky, poi vedono me: sono una ragazza, siedo su una moto, il mio scollato corpetto di pelle nera crea una timida curiosità. Abbassano lo sguardo, ridacchiano tra loro e si allontanano di qualche passo. Penso a loro: sarà la prima volta che vedono una donna in moto? E per quanti di loro questo cavallo di ferro è già un sogno di libertà come lo fu per me? Chi fra loro avrà il coraggio di cavalcarne uno a sedici anni come feci io e non tornare più?

Accendo una Winston, Ricky ha pagato e sta riaccendendo il motore, io scendo un attimo a gettare la bottiglia di Bud ormai vuota e risalgo. Un’altra volta. Sarà questa la milionesima? E mentre il vento sta per ricominciare ad avvolgermi con le sue carezze senza vergogne, sono io che fisso ancora per un istante i ragazzini mentre ci allontaniamo; un giorno potrei anche incrociare uno di loro e non mi riconoscerebbe neppure lui… Boh, tiro fuori un’altra Bud prima che il caldo le renda tutte imbevibili. Guardo di nuovo in avanti per qualche attimo: di nuovo vedo solo il casco di Ricky a nascondere la strada che insiste ad essere sempre , immutabilmente dritta. Ai lati so già cosa c’è, non ho voglia di salutare cacti né le rocce serie, mi volto un poco e le case del paesino già si son fatte piccine, per un secondo penso agli occhi di quel vecchietto che ci ha riforniti di benzina. Cosa c’era in quello sguardo? Invidia per una libertà che noi abbiamo scelto e lui no? Nostalgia di quand’era giovane e poteva ancora decidere di vivere sotto le stelle e dormire dove capitava? Ma perché: noi motociclisti ispiriamo davvero tutto questo?

A me, per esempio, l’idea di una casa normale non dà più la sensazione di prigionia che mi poteva dare dieci anni fa. Forse adesso potrei desiderarne una, di casa, ma non ne sono tanto sicura: non me lo sono mai chiesta. A destra il mio sguardo viene rapito da qualcosa che non è né un cactus, né una roccia: in lontananza si vede qualcosa che dovrebbe essere un ranch, sembra abbandonato. E a chi sarebbe venuta l’idea di abitare in un posto del genere? Proprio un Eden non è, proprio no. Chiudo gli occhi per qualche attimo, aspiro una profonda boccata e provo ad immaginare come sarebbe una casa adatta a me: sicuramente con pareti coloratissime, finestre a forma di stelle e di luna, enormi, anzi un sacco di piante intorno ai muri, sì, belle e rigogliose e dai fiori colorati… No, niente cacti, per carità. Passo diverso tempo così assorta in queste mie assurde peregrinazioni mentali, progettando e cancellando e progettando mille volte ancora la mia casa nei modi più impossibili, poi, prima di arrendermi all’evidenza del fatto che non tengo conto neppure delle più elementari leggi della fisica per perché sia possibile far stare in piedi anche un solo muro di quelle mille case virtuali, mi rendo conto che è già passato un bel po’ di tempo da quando siamo partiti; Ricky mi indica un ristoro a lato della strada e fa segno che ci si ferma a mangiare.

Questo ristoro dentro non è malvagio a vedersi: sembra pulito, ma tanto non mi guardo molto intorno perché ho fame e vado quindi subito a sedermi al tavolo. Dico a Ricky di farmi portare del chili e una birra… anzi no, sete non ne ho più, meglio una tequila. Anche se ho fame mangio piano, non mi par vero di appoggiare il mio sedere su qualcosa che non si muove, sicché mi godo il momento. Ricky invece mangia in fretta, fa sempre tutto di fretta lui, ma chi gli corre dietro? Va beh, meglio così, lui ora se ne va a dare un’occhiata alla moto perché dice che fa un rumore strano, io non ci capisco nulla quindi mi gusto il pranzo in santa pace. Vorrei dell’altra tequila, chiamo al bancone, pochi secondi e vedo atterrare sul tavolo una bottiglia intera. Alzo gli occhi e vedo il ragazzo che me l’ha portata, senza rendermi conto lo fisso per qualche frazione indefinita di tempo e, quando me ne accorgo lui sta ancora sorridendo mentre si strofina una mano sul grembiule. Mi dice di berne quanta ne voglio , che per il prezzo farà lui dopo. Non è esattamente quel che si dice un bel maschio, ma ha un viso simpatico, magro e carino, gli occhi grigi sono un po’ intriganti, quello sì, e molto espressivi. Gli dico di sedersi così almeno parlo con qualcuno che non sia un cactus. Mi chiede di me, e allora lui rimane abbastanza incuriosito quando gli racconto che a sedici anni decisi di andare a vivere ovunque la moto di Ricky mi portasse, che la mia casa è dappertutto e la mia famiglia è chi mi sta vicino di giorno in giorno. Anch’io penso di guardarlo con la stessa espressione quando mi parla di sé, mi dice che si sta laureando in architettura e che, appena ottenuta la laurea, smetterà di lavorare qui e andrà in Europa per vedere da vicino le opere del Vecchio Continente: forse sgrano ancora di più gli occhi quando mi dice del lavoro che farà e del futuro che lo attende. Andiamo avanti così per quasi un’oretta, tanto qui non ci sono più clienti e Ricky ha deciso di schiacciare un pisolino sulla moto.

Continuo a guardarlo, questo ragazzo. Ha pressappoco la mia età, dietro le idee chiare c’è anche una mente di tutto rispetto e un uomo di carattere che trasmette fiducia. Ad averlo incontrato in un altro contesto, chissà, forse ne sarei rimasta molto attratta. Per qualche minuto, mentre lui parla con quel tono gentile e sicuro di chi sta lavorando sodo per valere qualcosa nella vita, provo ad immaginare come sarebbe potuto essere tra me ed un ragazzo del genere, che tipo di vita avrei fatto, sotto quale luce avrei visto il mondo… E, addirittura, quando ci alziamo per salutarci penso, per un istante, al perché non dovrei dirgli “ehi senti, perché non mi fai restare con te un po’, tanto per provare, poi magari insieme si sta bene davvero, chissà cosa può succedere nella vita…” Stavolta però non faccio in tempo a fermare l’immaginazione e già suppongo che nessuna persona ragionevole si metterebbe a prendere sul serio la prima selvaggia arrivata da chissà dove, per di più in moto e con il suo compagno. Massì, dai, che pensiero idiota… davvero mica si può saltar fuori dicendo così.

Boh, chissà da dove mi arrivano queste idee, una persona ragionevole non ci dovrebbe neppure pensare, anche se , come nel mio caso, si trattava solo di un’ipotesi, di fantasia: come la casa, i ragazzini del paesino… o la mia mamma che potrei incrociare per strada. Ci si saluta, dice lui che, a proposito, si chiama Gregory e io che mi chiamo Thess, che sono stata contenta di fare due chiacchiere con lui e che chissà, forse un giorno ci potremo incrociare da qualche parte. Chi lo sa. Prendo il mio zaino, esco dal ristoro e vado a svegliare Ricky, sistemo nella borsa la stecca di Winston. Che sciocca, avevo di fronte un architetto e non gli ho neppure chiesto dei consigli per la mia ipotetica casa. Chissà se gli piacciono le donne un po’ selvatiche. E le vetrate? Chissà se anche lui parla con i cactus. Accendo un’altra sigaretta prima di montare in sella e, mentre tiro la boccata più lunga, per la prima volta mi chiedo se nella vita sarà più schiavo lui delle sue scelte, oppure io delle mie. Ho paura di rispondermi subito mentre torno a cavalcioni sulla moto e stavolta penso che potrei decidere io se sia questa la milionesima volta.

D.S. Villasanta



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