Alain Delon
Un momento mi sembrava un’idea innocente, il momento dopo no.
Mi chiedevo se fartela o non fartela, la domanda. E intanto parlavamo, due amici al tavolo di un bar all’aperto, masticavamo olive e patatine bevendo Coca (tu) e pomodoro condito (io).
Vive un gennaio caldo, Roma.
Con solo una maglietta di cotone sotto il cappottino aperto, ero perplessa per il tuo collo alto di lana spessa a coste che, fuori dal bomber di pelle nera, si andava a impigliare nella barbetta di pochi millimetri, sfumata sulla nuca fresca di taglio a spazzola.
Se mai leggerai queste righe, Johan, sappi che ti ho trovato elegantissimo e insieme così minimal, appena ritornato da Parigi, al nostro primo incontro.
Così francese, nel senso stereotipico del termine.
E che volevo chiederti di fotografarti, magari mentre ti accendevi una maledetta sigaretta dopo l’altra, per usare la tua immagine a corredo di questo post. Ma tentennavo: un momento mi pareva una richiesta da niente, un momento dopo un bieco sfruttamento di persona, una cosa fatta per assecondare un cliché.
No. Non io. O almeno non con te, che non te lo meriti affatto, pensavo.
Ho usato Alain Delon, spero che ti faccia piacere.
E intanto conversavamo in lingua.
Lui, lo studente “ostaggio” di un interminabile corso di laurea della Sapienza, che per arrotondare dà lezioni di francese en plen air, mi faceva tradurre l’articolo “La chute de la France” (qui l’originale), nel quale veniva riportato per intero il pezzo pubblicato su Newsweek da una giornalista americana, Janine Di Giovanni. L’ennesima espressione di French Bashing, la moda di sparare a zero sulla Francia da parte degli anglosassoni. Perfino l’Huffington Post ne parla, signora mia.
La Di Giovanni, la curiosità me la sono tolta subito, in home page del proprio sito personale, si mostra perfettamente pettinata e sorridente in mezzo alla trincea, circondata di barbuti combattenti.
Né si smentisce quando, nel testo, infila perle come:
beaucoup de contribuables sont imposés à plus de 70 %
frase che denuncia il fatto che la signora, nella Ville Lumière, frequenti solo bella gente.
O come la diceria che la Francia si stia svuotando dei suoi migliori elementi (chefs d’entreprises, innovateurs, esprits créatifs, cadres supérieurs -!-) a causa del governo socialista e dell’eccessiva mollezza indotta nei cittadini dalle troppe garanzie offerte ai lavoratori.
O che i francesi manchino del tutto di talento per l’imprenditoria, senza accorgersi di usare il termine entrepreneur come fosse di origine anglosassone:
Pour un pays historiquement riche, c’est une tragédie. Le problème des Français, comme on dit, c’est qu’ils n’ont pas de mot pour entrepreneur [la journaliste reprend ici une citation prêtée à l'ancien président américain George W. Bush]. Où est le Richard Branson français ? Et le Bill Gates français?
Per non parlare della bufala del latte venduto a sei euro al litro, su cui si è scatenata la satira francese .
Sono andata avanti un bel po’, in quella traduzione fonte di stupore e ilarità.
Dal canto mio, per equilibrare, ho portato un articolo dal sapore esterofilo, “Parigi in pillole: i bambini francesi, indipendenza precoce o abbandono di minore?”, appena comparso sul blog Tagli, che Johan ha letto scuotendo la testa e assicurandomi che in Francia i bambini invece sono tenuti in palmo di mano (vabbé, forse non ha centrato il vero punto della questione, ossia l’annosa critica allo stereotipo della mamma italiana, portata avanti a colpi di sviolinate alle mamme altrui).
Due visioni, ugualmente di parte ma contrapposte, sullo stesso paese, che però si scontrano sui confini di posizioni consolidate, valutando il bene e il male secondo i parametri consueti, cambiando semplicemente di segno alle fazioni. Ce la si racconta, calcando la mano su alcuni aspetti a discapito di altri, pur di non affrontare la cruda verità.
Una modalità ben riassunta, secondo un ex blogger della prim’ora, una mia recente conoscenza, dall’uso strumentale di certi fumetti: Sturmtruppen ha svolto una funzione consolatoria [ben magra consolazione] dei danni causati dai tedeschi nel secondo conflitto mondiale, mentre Asterix lenisce l’umiliazione della conquista romana della Gallia (“e i francesi ci rispettano, che le palle ancora gli girano…”).
Ma c’è del nuovo, in Francia e altrove. Qualcosa che fa davvero presa sulla gente e sta minando, in certi casi, perfino la credibilità di evidenze storicamente accertate. Un modo nuovo di raccontare il mondo che non indigna, ma anzi, dà sollievo. Che riempie i polmoni d’aria pronta a esplodere in una risata liberatoria.
C’è la lezione di Dieudonné che rende accettabile ai francesi il superamento dei limiti tramite battute e gesti dissacratori, con evidente allineamento alla scuola italiana, quella del giullare arruffapopolo, istituzionalizzato Berlusconi, consacrato da Grillo, a cui strizza l’occhio Renzi.
Quanto a me, finita la lezione con Johan, mi sono messa a pensare.
La costante ricerca del vero nascosto dietro le apparenze serve a mettersi al riparo da errori di valutazione e raggiri. Ma, allo stesso tempo, ho paura delle sue estremizzazioni. Paura che tolgano dignità e forza ai miei sogni.
Se c’è una Parigi che inseguo da sempre, è quella che mi hanno mostrato i poeti, i cineasti e i cantautori. A lei non rinuncio, come non rinuncio alle mie lezioni di francese che mi ci portano molto, molto vicino.
Malgré la France, e malgrado, o meglio, forse proprio perché, sia consapevole di essere io stessa fatta della stessa materia di cui son fatti i sogni.
Zaz – Ton Rêve