Fuck Social Sono sull’intenette da quando avevo circa 14 anni, il modem a casa si connetteva con strazianti mugolii e il connection timed out era, nel 90% dei casi, la diretta conseguenza del “mamma, porcaputtana, ma proprio adesso ti devi attaccare al telefono?” Come tutte le prime generazioni di non-early adopters, ci siamo ritrovati dietro uno schermo e davanti a internet explorer senza capirne un beneamato a livello tecnico (e in certi casi è ancora orgogliosamente così), guardati a vista da genitori preoccupati che ti esortavano a non dire alle genti che popolavano internet il tuo nome, la tua città. Perché sennò poi ti trovano e ti vengono a cercare sotto casa. Non postare le tue foto, perché sennò le usano per photoshopparti la faccia su una foto porno, e ti distruggono la vita, la reputazione e poi ti suicidi. (Non. Sto. Scherzando). Ma del resto, di dire a qualcuno il mio nome e/o di mandargli una mia foto, all’epoca, non me ne poteva sbattere di meno. Ero lì solo per passare un po’ di tempo, masticavo quel poco di inglese che mi permetteva di passarmi qualche serata sulle fan board dei Queen e scrivevo in maniera sufficientemente decente da avere voglia e tempo di avere un blog che nessuno leggeva e mi andava benissimo così.
Tanto, all’epoca, che cazzo me ne fregava se la mia mail era un’accozzaglia imbarazzante di parole inglesi, underscores messi a cazzo e numeri? Prima di inviare un curriculum sarebbero passati almeno altri otto anni, e, sicuramente, le opportunità lavorative accessibili a una sedicenne, nel 2004, non richiedevano quasi mai una candidatura online. Al massimo passare dal bar dell’amico dell’amico e chiedere al gestore “oi, avete bisogno di una cameriera?”
Il lato divertente dell’essere una sedicenne che passava le ore al pc negli early 2000s, però, era il potersi ritagliare un angolo di pace dal mondo reale. Dove le compagne di scuola che ti davano della sfigata che passava le serate su internet non sarebbero mai arrivate, dove poter fare il cazzo che ti pareva senza doverti sottoporre al pubblico ludibrio della gente che ti conosceva nella vita reale. Poco importa che in realtà di computer ne capissi una beata fava, eri la persona giusta da chiamare se, quella volta al secolo che usavano un pc, gli si impallava. (quasi sempre la risposta era “spegnilo e riaccendilo, se non funziona, dagli un cartone e vedrai che si riprende” - scusatemi, appassionati di It e genti che ne capite qualcosa).
Quando sono arrivati sulla scena facebook, twitter, i cellulari più intelligenti di chi li impugna, Instagram e tutta la variegata accozzaglia di siti intenzionati a farti “riconnettere con i tuoi amici”, che tu lo voglia o meno, le gabbie si sono aperte, e l’internet, che prima era il mio giardino zen dove il mio nome e la mia faccia erano più misteriose e inaccessibili del terzo segreto di Fatima, si è riempito di tutta quella gente che ha passato anni a urlarmi dietro che ero un’asociale dimmmerda perché, se non ero in biblioteca a leggere, ero davanti a un pc.
E sono arrivati carichi di foto pseudo-artistiche del loro pranzo, di citazioni in bookman old style su sfondi suggestivi, di status minatori contro terzi, di finte notizie spacciate come verità rivelate. E rivelando al mondo nome, cognome, città in cui vivono, luogo dove lavorano, luogo dove hanno studiato.
Quando un compagno di corso con il pessimo vizio di farsi coinvolgere in lavori di gruppo senza che questo scalfisse la sua granitica fede nel farsi i cazzi propri viaggiando otto mesi su dodici mi costrinse quasi con la forza a iscrivermi a facebook, ricordo ancora il vago senso di disagio. Mi sembrava di essere entrata nuda in chiesa. Quel livello di disagio. Che si ripresentava a ciclo costante quando mi accorgevo che di ogni serata, anche la più insignificante, passata a bere una birra, diventava una scusa per fare tonnellate di foto “e poi mi raccomando taggami”.
Non è un caso che, cercando su google web reputation, saltino fuori consigli spassionati di blindare i propri profili social “o volete che il vostro capo veda la vostro foto in cui impugnate un bicchiere con la cannuccia a forma di cazzo del vostro addio al nubilato / la vostra faccia al settimo giro di vodka / i vostri peli del culo sfuggiti alla ceretta che spuntano dal vostro bikini minimalista?”.
E ovviamente, lo stesso discorso vale per gli status sul capo idiota, su quanto ubriachi siete la sera prima di una riunione, ecc, ecc.
Ma se neanche questo fosse bastato a convincere i condivisori compulsivi di attimi della loro vita sull’internet, è arrivato presto un altro motivo validissimo per ergere cortine di ferro attorno alla propria persona online. I GENITORI TARDONI CHE SI ISCRIVONO AI SOCIAL.
Sì, quei due simpatici tizi che nel 2003 vi spaccavano i coglioni perché chissà con chi cazzo parlavate online e chissà in quale fosso vi avrebbero ritrovato perché vi sareste sicuramente lasciati adescare da un pedofilo cannibale ed esportatore di organi. Proprio loro, quando si sono accorti che l’internet era pieno di facce sorridenti e di vostri/ loro compagni di scuola, si sono iscritti in massa, diventando in tempo zero heavy users degni dei peggio eroinomani. E hanno iniziato a chiedere l’amicizia alla vostra comitiva. Ai vostri amici, custodi di vari segreti che vanno dal “tu dì che ero con te, mentre invece ero a mare a scopare come un riccio” al “sì, mi piace anche la figa ma mia madre è più cattolica di Ratzinger e non è il caso di farle venire un ictus.” Se vi chiedete cosa si provi a vedere vostra madre aggiungere i vostri amici su facebook, vi darò un utile metro di paragone: vi ricordate quando ha trovato il vostro diario segreto? Quando vi ha sorpresi a scopare quel pomeriggio che eravate convintissimi di avere casa libera per almeno altre tre ore? Ecco.
Ma chi era sull’internette già agli inizi degli anni 2000 sa come difendere la propria privacy con i denti e con le unghie. A mali estremi estremi rimedi e no, mamma, non me ne frega un cazzo, io su facebook l’amicizia non te la accetterò mai. E dì al resto del parentado che l’unica cosa che potranno mai intravedere dei miei rari passaggi su quell’hub di puttanate mentre cerco di organizzare le mie serate sarà sì e no la nuova immagine di copertina. Forse.
Ogni tanto mi sembro un Savonarola impazzito, quando penso queste cose. E inizio a invidiare fortemente i quaccheri, perché i loro amici, per lo meno, non decidono di delegare a un fottutissimo hub di cazzate il compito di ospitare i lunghi simposi richiesti da qualcosa semplice come l’organizzare una serata con più di tre persone presenti.
Però poi penso alle compagne di classe che mi hanno ritrovato via facebook (dio le maledica) che venivano imploranti a chiedermi come mai googlandosi saltassero fuori le loro foto in bikini e tanto altro, e i meravigliosi venti minuti passati a cazziare mia madre che aveva le impostazioni privacy ridotte a nulla, in modo che il mondo intero potesse farsi i cazzi amabilmente suoi.
Mi fa ridere come le parti si siano crudelmente invertite. Certo, non ho giocato la carta del “ti trovano e ti pedinano sotto casa”, però le ho fatto notare che magari quell’unica mail in suo possesso che usa per cose di lavoro è meglio tenersela per sé. Che le colleghe che pubblicano a ciclo continuo le foto delle gite, delle cene di classe stavano dando potenzialmente in pasto a sei miliardi di persone la sua faccia sorridente. E quando di questi sei miliardi almeno un centinaio sono ex alunni adolescenti che sanno smanettare anche con photoshop, decisamente, è meglio correre ai ripari.
Lo stesso vale per chi ai tempi mi dava della sfigata nerdacchiona. Ma come, l’internet 2.0 è pieno di facce sorridenti, di foto con filtri bellissimi del piatto di lasagne della trattoria da Toni l’onto, di coppie innamorate e sudaticce che si fanno le selfie post-sesso - cosa ci può essere di rischioso?
Lo stesso che c’era 15 anni fa, rincoglioniti. Solo che voi siete piombati sulla scena quando la rivoluzione social vi ha convinto che le vostre foto al mare sono un contributo irrinunciabile per non essere esclusi crudelmente dal piano dell’esistenza. E poiché nell’età dei social il massimo della complessità richiesta per essere ritenuti degni di essere riconosciuti come esseri umani sono i 140 caratteri di twitter, i vostri hashtag poetici e i vostri commenti su facebook, vi siete anche persi la fase in cui su internet ci potevi ancora ragionare. Chiaro, i blog esistono ancora, lode a dio, e ci sono ancora posti dove scrivere più di due periodi complessi è ancora socialmente accettabile - ma buona parte di chi è stato risucchiato nel vortice della dimensione social a tutti i costi non se ne è mai neanche accorto. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che notizie palesemente smentite da una semplice ricerca su google abbiano una risonanza spaventosa. Non si spiegherebbero le citazioni attribuite a caso.
Sono ancora una nerdacchiona che passa le ore al pc. Ricerca di lavoro, attesa di incarichi e altri fantastici fattori esterni fanno sì che questa tendenza non sia destinata a invertirsi per ancora molto tempo.
Però, se non altro, continuo a pensare che in un mondo virtuale invaso da instagrammisti della domenica, da youtuber che si riprenderebbero anche al cesso, da rivoluzionari da facebook e di genitori incoscienti che, tra una partita di candy crush e l’altra, danno inconsapevolmente libero accesso ai cazzi loro all’intera umanità, il mio onore (e la mia web reputation) sono intatti. Nonostante quindici anni passati a girovagare per quella che era una selva oscura e che poi è stata riconvertita in un parco giochi di dementi, nonostante un profilo facebook su cui compare l’occasionale quanto imbarazzante foto che potrebbe facilmente trovare la sua giusta collocazione in una pubblicità progresso contro l’alcolismo (da cui si evince la necessità di blindare, blindare tutto, anche le foto profilo, perdio), il mio io virtuale è rimasto fedele a sé stesso. Da una piattaforma all’altra, fino ad approdare su Tumblr, sempre con la stessa finalità: cercare un giardino zen in cui occasionalmente cedere alla propria logorrea, anche se destinata a rimanere lettera morta e a non essere letta da nessuno, in cui dare sfogo alla parte misantropa che i miei cari amici di facebook cercherebbero di curare con commenti carichi di “ma cosa succede, ti sono vicino” e di Schadenfreude.
Da qualche parte, in un social, le mie foto bloccate al resto dell’universo mi mostrano sorridente, in giro per l’Italia, con i miei amici. Ma quella è una facciata, una finestra da cui spiare quello che decido sia degno di essere dato in pasto a gente di cui non me ne frega più di tanto. Sono sempre stata molto più sincera nei meandri di internet dove nessuno conosceva il mio nome, la mia città, il mio percorso accademico e il mio passato lavorativo. Libertà.
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