Fuga da Alcatraz (1979)

Creato il 10 giugno 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Fuga da Alcatraz è un altro di quei film che fa nascere riflessioni. Visto innumerevoli volte, ma chissà perché non mi sono mai deciso a parlarne, fino a ora.
È stata la nostra Alice a tirarlo in ballo, contrapposto a un capolavoro di cui, al contrario, ho scritto di recente: Le Ali della Libertà.
E, fatto ancora più singolare, solo quando Alice li ha messi a confronto, le somiglianze sono balzate ai miei occhi. I punti di contatto erano sempre stati sotto i miei occhi, forse sotto gli occhi di tutti, e mai li avevo notati.
Strano effetto a volte, fa il cinema.
Ma parliamo del film. Inizia di notte, sul mare. Io vivo in una città di mare, sono abituato all’odore che permea l’aria, quando il vento spira verso terra. Così sono riuscito a immergermi nella scena dell’arrivo di Frank Morris (Clint Eastwood) ad Alcatraz quasi completamente.
Ma il bello di un regista come Don Siegel, che riattivò l’isola e la prigione pur di filmare, è che comunica attraverso gli oggetti che inquadra. Sembra scontato, ma credeteci, in pochi ci riescono.
E allora il primo piano sulle catene che bloccano braccia e gambe di Clint Eastwood, vale più di qualsiasi scena di condanna in tribunale, con relativa sentenza letta dal giudice inflessibile.
Qui niente giudici, né avvocati, né giuria, né aule. Solo la prigione. Solo Alcatraz.

***

[contiene qualche anticipazione]

Il bello dei drammi carcerari è il paradosso che creano nello spettatore. Di volta in volta, ci vengono mostrati detenuti, piccole celle umide e sporche, secondini cattivi e direttori inflessibili. E i detenuti, che pure si trovano dietro le sbarre per aver commesso qualcosa, diventano noi stessi.
E non importa quali crimini abbiano commesso. L’unica volontà è fuggire. E un dramma carcerario prevede come conclusione obbligata, l’uscita dal carcere. Questa può avvenire in modi e tempi diversi, dopo alcuni giorni o dopo vent’anni; il ché non implica necessariamente che il prigioniero debba uscire vivo. Ma la si aspetta con ansia. La si pretende. E si parteggia, quasi fossimo chiusi in quei cubicoli con le nostre belle divise azzurre e i numeri stampigliati addosso.
Di Morris, il protagonista, non sappiamo nulla, né ci importa. Può essere innocente, oppure reo dei peggiori crimini. Ma siamo con lui. Perché ha la faccia di Clint Eastwood, perché è in gamba e perché subisce la sua dose di ingiustizia. Ma soprattutto perché è lì dentro, sulla Roccia, Alcatraz che, proprio per la sua stessa conformazione geologica, è divenuta la Prigione per antonomasia.
Il luogo soffocante, in cui tutto, a cominciare dalle celle per finire coi locali destinati all’incontro coi parenti, è soverchiante; come se l’architettura stessa avvolgesse attori e fantasmi di coloro che li precedettero tra quelle mura, e impedisse loro anche di pensare.

***

E allora fuggire diviene un’esigenza morale. E il film di Siegel si concentra solo su questa esigenza.
Il segreto della riuscita di un dramma carcerario parte, quindi, dal set? Direi di sì.
Morris e i fratelli Anglin, insieme a Puzo (in inglese Butts) complottano quotidianamente per fuggire.
Poco spazio lasciato ai personaggi. E a partire dal direttore Warden, cominciano le analogie con Le Ali della Libertà. Quasi stesso look per entrambi i direttori. Manca tuttavia il secondino spietato, Clancy Brown. Ma c’è il detenuto che alleva animali, Tornasole, solo che il suo amichetto è un topolino, anziché il corvo di Brooks. Ci sono detenuti, come Wolf, che abusano, o almeno tentano di abusare degli altri detenuti, come Le Sorelle. E ci sono quelli, come Doc, che non resistono ai soprusi e finiscono demoliti sotto la spietatezza dei carcerieri.
Film uguali, eppure così diversi.
La libertà di Morris è semplice fuga, giusta o ingiusta che sia. È individuare con abilità e freddezza il punto debole del sistema che sovrintende al microcosmo di Alcatraz per aver ragione dello stesso. È primi piani sul volto di Eastwood e sul pupazzo di cartapesta che egli costruisce per ingannare le guardie. È ansia e tensione ineguagliabile quando Morris e i suoi compari si inerpicano lungo le condutture e cercano, tramite metodi strabilianti, tra i quali la creazione di una trapano fai da te per forzare una griglia che ostruisce un passaggio, una via alla libertà attraverso il mare della Baia di San Francisco, freddo e caratterizzato da correnti fortissime, che può ammazzarli in un soffio.
Le Ali della libertà è poetica non già della fuga, ma dell’esistenza stessa che non può essere racchiusa. E questo vale per Andy, innocente così come per Red, colpevole. È redenzione.

***

Morris e gli Anglin fuggono per istinto: progettano, confabulano e passano all’azione lasciandosi dietro, giustamente, il quarto compagno, Puzo, sopraffatto dall’indecisione e dalla paura.
Con questo non voglio dire che il film di Siegel sia freddo e spietato, ma lo è tanto quanto quello di Darabont appare lirico e meraviglioso.
Entrambi capolavori, sotto luci profondamente diverse.
Fuga da Alcatraz intrappola non solo gli attori, costretti come i detenuti in un isola che rende claustrofobici, ma anche i sentimenti; e mi riferisco allo struggente colloquio tra Puzo e sua moglie. C’è profondità in quelle mani che fingono di toccarsi attraverso il vetro divisorio e in quelle parole mimate perché il secondino all’ascolto della telefonata non carpisca l’intimità dei due sposi.
Ma è Eastwood l’istrione. A lui il compito di riproporre la fuga dal penitenziaro più famoso e sicuro del mondo. E allora siamo con lui quando inizia a scavare intorno a quella grata con la sua limetta tagliaunghie, siamo con lui quando effettua la saldatura del cucchiaio che ha rubato in mensa, per avere uno strumento più efficace col quale allargare il buco, e siamo sempre con lui quando, con gli Anglin, prende il mare su un canotto fatto rabberciando pezzi di gomma con del mastice.
Resta ignoto il destino dei fuggitivi. Alcatraz è solo un incubo grigio di pietra e cemento lasciato alle spalle. Si è giunti lì durante la notte e lo si è lasciato indietro all’alba, proprio come i brutti sogni. Senza musica, senza speranza, solo con quel senso di oppressione costante.
Ma è impossibile non sorridere quando si scopre, spulciando tra le curiosità del film, che mesi dopo la vera fuga dei tre detenuti, ormai dati per morti, un secondino del blocco B, sede delle celle dei tre evasi, ricevette una cartolina dal Brasile. Non c’era scritto nulla, come si conviene all’ennesimo inno alla libertà.

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