Prima della guerra Natalija era una donna felice. Sognava un mondo migliore per suo figlio, un futuro di cui andare fieri. Ma la guerra in Donbass ha distrutto i suoi sogni di donna e di madre. Al momento dello scoppio del conflitto era incinta all’ottavo mese e sperava così di partorire proprio a Donetsk, nella sua città, dove lei stessa era nata 28 anni prima. “La guerra mi ha costretta a un viaggio di paura” ci racconta Natalija, “Non potevo restare nell’Est. Troppo rischioso, e poi che vita avrei dato a mio figlio? La Russia che incalza alle porte e la morte sempre in agguato, non sono i presupposti per una vita degna”. Natalija ci spiega che il viaggio è stato spesso sotto il fuoco. “Non sono partita da sola, altrimenti non sarei mai arrivata a Kiev”.
Le chiediamo allora se vuole raccontarci un po’ le ultime ore prima della partenza. Subito Natalija non sembra turbata. Ci spiega che è difficile dimenticare, che un viaggio di quel genere non può che restare nella memoria. “Quando sapevo che sarei dovuta partire, il pomeriggio stesso andai a casa di un amico” ci dice, “Poi è venuta altra gente. Intorno all’ora di cena eravamo una dozzina circa. Abbiamo mangiato un po’. Non tanto. Poi, col buio della sera, ci siamo coricati per dormire in attesa dell’alba”. Natalija ci spiega così di esser partita con le prime luci del giorno. “Per tutta quella notte non ho dormito. Avevo troppi pensieri in testa. Avevo paura”. Dal tono delle sue parole, da come le scandisce, da come non teme di ricordare, Natalija dà l’idea di essere una donna forte.
Le domandiamo allora perché non sia partita prima, quand’era ancora nei primi mesi di gravidanza. Natalija sorride. Ci fa sapere che il suo timore era partorire per strada, senza una struttura ospedaliera appropriata, senza medici, senza la dovuta igiene. Così ha continuato a vivere a Donetsk, sperando così nella pace e nella fine del conflitto. Ci racconta che è stata dura lasciarsi tutto alle spalle. “Sapevo che non avrei più rivisto la mia casa, che avrei dato alla luce un bambino lontano dalla sua terra”. Le parole di Natalija testimoniano un’idea di Ucraina che è attaccamento alla terra, alle antiche tradizioni, ai valori del tempo. Nel racconto della donna si evince l’esistenza di un Donbass che lentamente si sgretola sotto il peso di una Russia che preme ai confini. “Qualcuno ha votato per unirsi ai russi,” ci spiega Natalija, “ma non tutti volevano l’influenza di Mosca e la separazione dal resto dell’Ucraina. Personalmente ho sempre sperato nella vittoria dei sostenitori di Kiev”.
Natalija ci racconta il viaggio in treno. “Ho alloggiato nella classe più economica. Sono partita con tutti i soldi che avevo e non volevo sperperarli tutti nel viaggio”. Ci spiega che il suo cruccio continuo era di dare un futuro al figlio che sarebbe nato. Ci fa così vedere una fotografia di suo figlio. Ha una fototessera in borsa. Ce la mostra e ci dice che soltanto per lui s’è lasciata tutto alle spalle. “Perché sarei dovuta partire se vivevo da sola? Avrei anche combattuto, se ce ne fosse stata l’occasione. Non avrei mai lasciato la casa dove ho vissuto per anni”.
Quando arriva finalmente a Kiev, Natalija trova rifugio in una casa-famiglia, una struttura destinata al ricovero delle ragazze madri. “All’inizio è stata difficile. Non conoscevo nessuno. Ho fatto amicizia con un’altra donna di Lugansk. Lei arrivò con due figli al seguito e nessuna gravidanza”. Natalija scandisce le parole con tono. Vuole lasciarci intendere la difficoltà che si incontra nel reinventarsi all’improvviso una vita. “Quando sono stata accolta a Kiev nella casa-famiglia, ho rivisto per la prima volta i colori!” esclama la donna. Sono i disegni dei bambini appesi ai muri dei corridoi, i disegni dei fiori, delle montagne, delle case, ma anche i disegni delle macerie, della guerra. Natalija ci racconta che in molti fogli era ritratto il fuoco. “Il fuoco non lo dimenticherai mai, una volta che lo vedi!” esclama, “È come quando vedi un palazzo andare in frantumi”. Poi ci spiega di fogli che ritraevano la bandiera giallo-blu dell’Ucraina. “Quando vedevo i colori della mia bandiera, tornavo per un momento a casa. Nel mio Paese amato da sempre!”. Natalija non nasconde di aver visto nel corso del viaggio le barricate con le bandiere russe. “Quando le vedevo piantate a terra o fra i copertoni delle auto, mi ricordavo la ragione della fuga”.
Chiediamo alla donna quale sia per lei il ricordo più triste dei suoi ultimi giorni a Donetsk. Per un attimo sembra che non voglia parlarne. Dal flusso continuo del discorso tenuto fino a quel momento, all’improvviso Natalija tace. Si immobilizza. Fissa nel vuoto. Poi ci racconta di un giorno che era scesa in strada per andare a fare la spesa. Improvvisamente il silenzio della strada era stato rotto dal frastuono di una decina di colpi d’arma da fuoco. “È allora che sono tornata a casa. Mi sono barricata dietro la porta e ho iniziato a piangere” racconta, “A quell’epoca ero già incinta. Lo ero già da qualche mese”.
In tutto il discorso la donna ci ha sempre soltanto parlato di lei e di suo figlio, della fuga dal Donbass e del riparo a Kiev. Mai una parola su un uomo, un eventuale marito. Mai nulla sul padre di suo figlio. Non abbiamo voluto forzare la mano. Ci sembrava inopportuno e indiscreto. Ci racconta, però, del timore che l’ha colta quando è arrivata nella capitale. “Ero da sola. Ero prossima a partorire. E in tasca avevo pochi soldi” ci spiega, “Temevo così che potessero portarmi via mio figlio. Avevo il timore che potesse finire in qualche lista per le adozioni internazionali”. Ci spiega che a Kiev ti danno riparo se prima o poi ti trovi un lavoro, “altrimenti finisci sulla strada o a dormire nei corridoi della metropolitana”. Le parole di Natalija si fanno tutt’altro che clementi. Si vede chiaramente la sua rabbia. Dice di avercela con la guerra e con il sistema, con una politica incapace di gestire la situazione e con gli ammortizzatori sociali che mancano o scarseggiano. “Spesso sono andata a fare la coda nei centri dell’impiego. Ci passavo intere mattinate. Ma niente. La guerra ha distrutto tutto, anche l’economia”.
Ci racconta che diverse famiglie – con l’intensificarsi della guerra – si sono trasferite a Mariupol. Chi aveva parenti all’estero è partito. Chi si dichiarava filorusso, ha accolto i convogli del Cremlino al confine. “Personalmente non avrei mai consegnato alla Russia il mio Paese” ci spiega Natalija, “A mio figlio insegnerò la storia dell’Ucraina, del Paese dov’è nato e dove io stessa son nata. I valori di questa terra sono altri. Gli insegnerò lo straniero che non vorrà comandare!”.