Fuori la pioggia

Creato il 09 novembre 2013 da Unarosaverde

Fuori la pioggia; dentro la tranquillità di un sabato mattina pigro.

Sto immersa, da una mezz’ora, nelle pagine de La Lettura del 3 novembre. Leggo un pezzetto, ci rimugino, esprimo considerazioni ad alta voce tutte ingarbugliate di cui solo io capisco i sottintesi. Mica tutto quello che c’è scritto lo capisco, anzi, molto poco. Ma non ero una che ha “fatto le scuole alte”?

Pare quasi che, nonostante questa settimana sia stata una delle poche dell’anno in cui mi sono di nuovo infatuata del mio lavoro e in cui ho dovuto metterci la testa e disinserire il pilota automatico della consuetudine, io non abbia in realtà’ mai veramente pensato ma solo applicato tecnicismi a teorie di numeri dietro ai quali si presume ci sia la vita vera. E vita vera probabilmente è: pur sempre di produzione, persone, equilibri manifatturieri, fatturati da cui risultano stipendi, sempre si tratta; ma dimensione puramente pratica resta. Quella dell’anima non ha mai spiato neppure dai vetri della finestra per tutto il tempo.

A volte credo che, per far funzionare veramente il cervello, io dovrei essere sottoposta, obbligata, una volta alla settimana, ad un esercizio: dato un tema, seguendo rigorose  logiche classiche di ragionamento, svisceralo, analizzalo, confutalo, deducine le conclusioni e prima, preparati, leggi, verifica le fonti, consulta più testi senza aprire internet se non in ultima battuta, senza accendere la televisione, senza lasciarti condizionare dall’opinione comune fatta di impressioni e pregiudizi e raramente circostanziata.

Potrei cominciare con qualcosa di semplice; potrei esserne all’altezza: la chimica di acqua, farina, sale e lievito, ad esempio, roba che mangio ma non conosco. Poi potrei tentare – ma vi dico che non so se ne sarei capace - dopo aver imparato i rudimenti del metodo, passare a qualcosa di più’ complicato: pro e contro dell’energia nucleare, ad esempio. Una volta trascorsi un paio di anni ad allenare la testa e a imparare ad imparare, per davvero però, forse potrei rischiare a sfiorare, di tangente, un argomento con pesanti implicazioni etiche: che so… il razzismo, la violenza, la gestione del proprio corpo e della propria e altrui sessualità in ambito personale e privato. Sarebbe difficile, inarrivabile magari però sarebbe onesto, come approccio al problema: una sorta di Gradus ad Parnassum verso la maturità.

Alla teoria poi, a fare le cose proprio bene, potrei affiancare la pratica: meglio parlare di eutanasia e decidere da che parte stare dopo aver trascorso anche solo qualche ora in un luogo con un malato inguaribile; meglio dirimere di razzismo dopo aver visto, anche solo da spettatore, perché si scappa da certi luoghi che non si riesce a sistemare e si va in altri, senza garanzia che siano già stati sistemati e pronti ad accogliere; meglio parlare di aborto selettivo dopo aver capito cosa significa per un genitore avere un figlio disabile e aver provato a stimare se sia più il dolore o l’amore nelle loro giornate. Mica facile, scegliere per se stessi, anche dopo esposizioni del genere, ma forse meno superficiale, più ponderato, più ragionato. Meno fatuo.

C’è che, vedete, io sono stufa di tranciare giudizi approssimativi su cose che non conosco, a mezze parole o a discorsi infuocati. Sto sui nervi a me stessa. E come mi indispongono questi giudizi sentiti da altri così, se non di più, mi ripugnano quando sono pronunciati da quella parte di me che si è adagiata al sentire comune, alla facilità di espressione dei mezzi pensieri, alle bandiere dei luoghi comuni. Avrei bisogno di essere redarguita, severamente, con minacce senza appello, sulla necessità di decidere, a 41 anni da poco suonati, se diventare adulta o no.

E così, immersa in una vaga sensazione di vergogna per il tempo che ho buttato alle ortiche, mi trovo a passare da un’intervista a Camille Paglia sull’appiattimento della cultura e sul femminismo - con la quale sento che sono d’accordo per metà e per l’altra no ma non so spiegare perché, non so motivare la scelta – a un articolo su Masterpiece, agone letterario fattosi reality, nel quale si chiederà ai concorrenti di scrivere un reportage, un articolo a tema, il testo di una canzone, di misurarsi insomma, su più generi di composizioni e ritrovarmi a pensare che non è dagli esercizi di stile che si capisce lo scrittore e poi subito dopo chiedermi se è vero o no e se io, con un diploma di liceo classico ormai privo di contenuti perché in questi  anni ho dimenticato tutto, e qualche tonnellata di letture, la maggior parte delle quali di parole leggere, buone a tenere compagnia qualche ora ma non per sempre, possiedo gli strumenti per capire se uno è un bravo scrittore o procedo solo a stima.

Poi ecco la fotografia di Andrea De Carlo, accanto all’articolo e subito trincio un giudizio secco, sull’inadeguatezza, come giudice, di un autore che ha scritto lo stesso libro una decina di volte cambiando il titolo e i nomi ai protagonisti e poco altro e predilige sue  fotografie in bianco e nero e a piedi nudi – ma perché adesso tutti si fanno fotografare vestiti da capo a caviglia e a piedi nudi? – e poi mi domando se la mia opinione su questo belloccio ricciuto sia pura antipatia di pelle o abbia strumenti obiettivi per dire che no, non passerà alla posterità, non sarà ricordato tra i grandi e sepolto tra le loro urne.

Ecco, sono a metà dell’inserto e ivi impantanata: sto procedendo piano, mi sto ascoltando, per una volta, mi sto confutando ma le mie armi sono spuntate, mollicce, inadeguate.

Vorrei allontanarmi dai luoghi comuni, uscirne fuori, anche se fuori piove e lì manca il conforto della consuetudine, l’abbraccio delle abitudini, la rassicurazione del battito piatto del pensiero placido. Non so se mi sono spiegata, con voi, non credo: con me stessa ci siamo capite benissimo ma è una dura battaglia.


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