Il mio fraterno amico Nicola Perullo ha voluto farmi dono di un bellissimo testo che sintetizza alcuni dei temi contenuti nel suo saggio “Filosofia della Gastronomia Laica” (Meltemi, 2010). Il libro cerca di rispondere a una domanda finora purtroppo affrontata con scarsa perizia o sconcertante pressapochismo: “È possibile una riflessione filosofica sul gusto e sulla gastronomia?” Diciamo che con la “Filosofia della Gastronomia Laica” questa domanda comincia finalmente a trovare quelle risposte che attendeva da sempre. Buona lettura.
Fuori menu (di Nicola Perullo)
Agli albori della civiltà occidentale, Platone fa dire a Socrate questo: “Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?” La domanda è retorica, e sottende una convinzione che attraversa tutto l’arco della nostra cultura fondando una tradizione potente, tuttora in ottima salute: il gusto è fuori dal sapere. Un sentire diffuso ancora oggi: il cibo è degno di studio solo quando è nutrizione, salute, economia e politica – oggi diciamo food policy - non quando concerne i sentimenti di piacere o dispiacere che il gusto ci procura. De gustibus non est disputandum, recita il noto motto medievale, sottraendo il gusto alla possibilità di una verità e relegandolo nella sfera del privato e dell’idiosincratico.
Il gusto vive uno stato di minorità nella gerarchia della conoscenza innanzitutto perché è considerato, con l’olfatto, un senso minore. Per gran parte della tradizione filosofica occidentale, infatti, sono la vista e l’udito i sensi della conoscenza e dell’oggettività, in quanto sensi di distanza: la conoscenza – a maggior ragione dopo la rivoluzione scientifica galileiana – è neutralità, distanza tra soggetto e oggetto. Gusto e olfatto sono sensi di prossimità e introiezione, mettono a contatto percipiente e percepito e mescolano la grana delle cose – una mela, una pietanza, un vino – con il cogito, scompaginandolo. Il gusto confonde, e può anche essere pericoloso se praticato con troppa acribia. L’idea (id-, da video, vedere) è immagine, non è un gusto; l’uomo è a immagine di Dio; la conoscenza e la verità non hanno gusto e sapore. E anche nel campo dell’estetica le cose non stanno tanto diversamente: Kant ci dice che è possibile parlare filosoficamente di gusto solo a patto di distinguere tra bello e piacevole, cioè tra quanto concerne gli oggetti visibili dell’arte e della natura e quanto concerne oggetti legati al bisogno e alla necessità come cibi e bevande. Hegel ribadisce il concetto, sottolineando che solo vista e udito sono sensi estetici in quanto sensi teoretici. C’è qualcosa, in tutta questa storia, che non convince. Vediamo perché.
Un grande psicologo della percezione del secolo scorso, James J. Gibson, sulla base di dati e esperimenti confermati dalle ricerche successive, ha dimostrato che, come gli altri sensi, anche gusto e olfatto sono un intero sistema percettivo, nel quale rientrano fattori neurofisiologici, disposizionali, culturali e sociali; sotto questa luce, il gusto non appare più come un senso minore ma come un sistema complesso e interconnesso. In altri termini, non si gusta con bocca e naso ma con il cervello, con tutto ciò che di problematico quest’affermazione prospetta in termini di rapporti tra “natura” e “cultura”. Queste ricerche di tipo percettologico si sono saldate, nel Novecento, con lo sviluppo dell’antropologia, della sociologia e della storia dell’alimentazione, costituendo un campo che può dunque essere studiato e che ha molto da insegnarci.
L’estetica del gusto muove da questo retroterra, torcendo la sua riflessione sui significati dell’esperienza gastronomica, una nozione che oggi appare decisamente importante. In questa fase storica, infatti, il gusto del cibo ha acquisito una dimensione pubblica rilevante attraverso molteplici canali; i desideri di consapevolezza attorno al tema della qualità alimentare fanno sempre più spesso capolino (anche se non si deve sopravvalutare il fenomeno dei foodies, degli appassionati, che sono sempre un’esigua minoranza); forme di sensibilizzazione ed educazione del gusto sono certamente molto più disponibili di quanto non fosse solo qualche decennio fa. Questo sta avvenendo perché si percepisce nella sensibilità gustativa una possibilità di expertise, di sapere tecnico acquisito con l’esperienza, che ci consente di riappropriarci di una relazione con gli oggetti del mondo – tra i quali quelli alimentari non rivestono certo un’importanza secondaria – che pare per molti versi preclusa, ormai ottusa dalle forme più massicce di riduzionismo tecnocratico che vorrebbe ridurre tutto a virtualità oppure a esperienze di tipo visuale. L’esperienza gustativa consente il ristabilimento di un legame a rischio scissione, al tempo stesso criticando e smentendo l’ideologia secondo cui l’immagine è tutto; è proprio in questo senso, che nei miei lavori ho proposto di concepire il gusto come relazione. Cosa significa? L’estetica del gusto rivendica innanzitutto una relazione materiale, corporea, col mondo. Una relazione che, se vissuta in tutte le sue articolazioni, ci espone anche sempre alla possibilità di uno di un attrito con questi stessi oggetti: la sorpresa, lo stupore, la difficoltà di comprendere e di assimilare tutto. Pensiamo per esempio a quanto si può imparare dall’esperienza gustativa di cibi e bevande altre, irriducibili alla nostra cultura; quanti quesiti possono nascere, educando la propria sensibilità gustativa, attorno ai valori che costituiscono le nostre identità. Il gusto, in quanto è relazione, è anche un’espressione di resistenza.
Il gusto come esperienza è una relazione ecologica: un rapporto dinamico e attivo tra noi e quei particolari oggetti della “natura” (le virgolette sono d’obbligo, perché il cibo è il perfetto esempio di un’ulteriore implicazione, quella tra natura e cultura, perché sintesi di materia prima e sua elaborazione, cura, produzione) che sono gli oggetti alimentari. Una relazione differenziata, diversamente modulata in base ai contesti: piacere, repulsione, conoscenza possono darsi alternativamente o contemporaneamente, come mostra in modo esemplare il racconto di Calvino Sotto il sole giaguaro (Sapore/sapere), dove una coppia di coniugi, attraverso il gusto, esplora i significati di un paese sconosciuto, il Messico, ma anche approfondisce la conoscenza dell’altro, in una mescolanza di emozioni, piaceri, riflessioni e stravolgimenti. Persino l’indifferenza ha il suo senso in certi contesti di esperienza gustativa: non sempre si può essere attenti, e anche l’indifferenza può marcare uno scarto critico.
Queste poche note per insinuare che del gusto si può dunque discutere, anche rispetto all’esperienza che se ne fa e nella quale siamo integralmente coinvolti, corpo e mente; non solo trattandolo come oggetto da laboratorio, vivisezionandolo e analizzandolo, come vorrebbero certi scientisti. Naturalmente, questo implica un punto, centrale per un’estetica del gusto: accettare una concezione dell’oggettività ecologicamente – o socialmente – costituita di certi atti. In altri termini, il gusto ha a che fare con una forma di oggettività che rimanda all’inter-soggettività, un’oggettività “debole”. Infatti, gustare è un atto sociale; i codici e i parametri che determinano il valore dell’atto che si esprime in valutazioni e giudizi sono complessi e costituiti, stratificati, e potenzialmente cangianti. Per questo annoiano i più (richiedono esperienza e pazienza) e insospettiscono i tutori delle cosiddette hard sciences. Nella discussione estetica contemporanea, la necessità di un concetto filosoficamente ambiguo come quello di gusto emerge con nettezza a proposito del rapporto tra qualità estetiche e non estetiche: quando valuto un vino armonico, elegante o di grande personalità, esprimo giudizi estetici di valore che non sono semplicemente la conseguenza del fatto che tale vino possiede determinate quantità (come tali, misurabili) di aromi, tannini o acidi. Vi è una certamente relazione, tra qualità estetiche e non estetiche, ma le prime non sono riducibili e non dipendono in senso stretto dalle seconde. Per percepire l’armonia, l’eleganza e la finezza occorre qualcosa di ulteriore, occorrono gusto e sensibilità.
Col gusto allora ci si mette in gioco, in una dimensione che è insieme estetica, epistemologica ed etica: è nella formazione e nell’educazione alimentare, come oggi emerge chiaramente nella battaglia tra difensori delle differenze e della biodiversità e colonizzatori/omologatori, che si svolge una battaglia anche per una diversa sensibilità gustativa, per la costituzione di nuovi valori di piacere. Dire che il gusto è soggettivo è, insomma, dire una lapalissiana ovvietà e insieme una sciocchezza: da un lato, i codici entro cui il gusto si costituisce sono spesso facilmente riconoscibili, esprimono un sistema di valori condivisi e rimandano a culture precise e consolidate. Dall’altro, e al tempo stesso, il gusto rimanda a una sfera dove agiscono biologia, disposizioni effimere, background personali, stili e firme individuali e irriducibili. Il gusto è perciò anche narrazione, racconto, biografia. Ma è proprio tutto questo a renderlo interessante e degno di riflessione. L’estetica del gusto è implicata in tutto questo, consapevole di non potersi perciò erigere a sistema teorico completo e fiera della sua essenziale marginalità.