Non si può dire che Vieni via con me sia un brutto programma: è un gradevole esempio di quello che potremmo chiamare – anche se la contraddizione è dietro l’angolo – varietà impegnato; la naturale protesi del lunedì sera di Che tempo che fa.
Detto questo Vieni via con me è un programma per se stesso, per gli autori che l’hanno ideato, per i protagonisti che espongono i propri elenchi o che recitano i propri monologhi, per chi comunque l’avrebbe guardato. Per quelle persone che guardano Che tempo che fa il sabato e la domenica prima di uscire o mentre cenano, per quelle persone che guardano Parla con me prima di Linea Notte. Per quelli come me.
E’ un programma retorico, quella bella retorica che ci fa sentire meglio e che, al meglio delle proprie possibilità, cavalca l’onda dell’essere e sentirsi migliori rispetto a qualcosa o qualcuno (che poi date alcune costanti nostrane, è un po’ vincere a mani basse).
La dinamica di produzione e fruizione di Vieni via con me assomiglia un po’ ad un gruppo esclusivissimo composto di pochi e gaudenti milionari che si compiacciono l’uno con l’altro della propria sproporzionata ricchezza. Una tautologia che in quanto tale non porta niente di nuovo alla discussione, solo frasi incisive e ad effetto che il giorno dopo diventeranno nomi di gruppi compiaciuti e di tendenza su facebook.
E per la cronaca, non avrei mai fatto andare Bersani e Fini a recitare il proprio elenco dei valori fondanti. Non per una questione di par condicio ma per la banalità e l’inutilità degli interventi fatti. Ah il buon vecchio metodo del creare aspettative..
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