È dal 23 ottobre 2011 che questo blog vuole scrivere qualcosa su Rossella Urru. La notte tra il 22 e il 23 ottobre Rossella è stata rapita, insieme ai suoi colleghi spagnoli Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons, da un campo per profughi saharawi vicino a Tindouf, in Algeria, dove lavorava per la Organizzazione Non Governativa (ONG) italiana Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli (CISP). Da quel giorno sono giunte poche notizie sul rapimento, il che speriamo voglia dire che chi sta lavorando per la sua liberazione lo stia facendo discretamente, stando attento a proteggerla.
E toccava a me scrivere quel qualcosa, perché io e Rossella facciamo lo stesso lavoro, perché siamo nate a un tiro di schioppo, perché ci siamo sedute sui banchi dello stesso liceo, perché abbiamo amici in comune, perché. Perché se ci ritrovassimo, in questo minuscolo mondo di viandanti dello sviluppo, se abitassimo nella stessa città dal nome assurdo, sperduta in mezzo al nulla, lontana da casa migliaia di chilometri, io e Rossella saremmo sorelle.
Avremmo storie da raccontarci davanti a un piatto di pasta comprata nella capitale e semisfracellata nelle dodici ore di buche verso il nulla, ci scambieremmo i libri, guarderemmo film improponibili da un hard disc esterno sullo schermo da tredici pollici di uno dei nostri portatili. I nostri rispettivi genitori prenderebbero la macchina e farebbero quei pochi chilometri per prendere un caffè con dei perfetti sconosciuti e consegnare un pacchetto che prenderà tre aerei, scusandosi perché “è un po’ pesante ma proprio non ce l’ho fatta a togliere la busta dei pabassini. Se ti fanno pagare li regali al check-in”.
E però cosa scrivere. Neanche ci conosciamo, io e Rossella. Chissà se abbiamo le stesse idee, chissà se anche lei, quando torna a casa, si ritrova a pensare che la gente è vestita in modo ridicolo, chissà se anche lei fa fatica a spiegare che questo in fondo è un lavoro come ce ne sono tanti, faticoso, disagiato, noioso perfino, qualche volta. Che spesso viviamo in condizioni più privilegiate di quelli che a casa ci considerano dei martiri. Che nel nostro lavoro si passa un sacco di tempo a risolvere problemi banali in modi complicatissimi, a mandare e-mail, a scrivere chilometri di relazioni, o seduti in riunioni che iniziano sempre in ritardo e non finiscono mai. Ma che è un lavoro entusiasmante, appassionante, gratificante come tanti nostri coetanei non hanno la fortuna di avere dall’altra parte dell’equatore.
Cosa si scrive a una persona che è stata presa di forza e portata via in una macchina? Che è in un posto in cui non può sentirci? In una situazione in cui noi non possiamo fare niente, ma proprio niente per aiutarla? Forse semplicemente quello che le diremmo se potesse sentirci: Rossella, ti aspettiamo, tieni duro.
P.S.: la famiglia di Rossella sta raccogliendo qui tutte le lettere, i messaggi e gli attestati di solidarietà ricevuti.
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