FURY o della disumanità della guerra

Creato il 02 giugno 2015 da Masedomani @ma_se_domani

Come il sottilmente maligno pianoforte di Ada in LEZIONI DI PIANO di Jane Campion, il vero protagonista di questo film è un oggetto, anche se ben più ingombrante; e ha un nome. Enola Gay è l’aereo che sganciò l’atomica su Hiroshima, FURY è un carro armato: vediamo il suo nome, verniciato sul cannone, in un gran numero di inquadrature. Per gli uomini che per giorni e giorni ci vivono, e ci muoiono, è insieme casa e mostro divoratore.

Aprile del 1945: il sergente Don “Wardaddy” Collier e il suo fedele M4 Sherman hanno ammazzato tedeschi in Nordafrica, poi hanno ammazzato tedeschi in Francia, ora ammazzano tedeschi in Germania. La sua fidata squadra di quattro uomini è rodata ed efficiente, ma quando il guidatore del tank rimane ucciso Collier si vede assegnato in sostituzione Norman, un 18enne con 8 settimane di addestramento alle spalle, in origine destinato a fare il dattilografo al Quartier Generale. La squadra non lo accoglie esattamente con simpatia, ma dall’offensiva delle Ardenne le truppe fresche scarseggiano, bisogna adattarsi.

La Wehrmacht è in ritirata, ridotta al lumicino, ormai vengono arruolati a forza vecchi di 70 anni, ragazze adolescenti e bambini delle medie – e chi si rifiuta viene impiccato. Pochi i soldati che ancora resistono, mentre ancora agguerrite unità di Waffen-SS non sembrano volersi arrendere. Il protettivo rapporto padre/figlio fra il sergente e il ragazzo è molto stretto, ma Norman, al contrario degli altri, non riesce ad accettare come ordinarie le atrocità della guerra.

Viene ordinato a quattro tank di occupare un crocevia fondamentale per l’avanzata delle truppe alleate verso Berlino, ma un corazzatissimo Tiger tedesco fa strage degli Sherman: solo Fury riesce ad aggirare il nemico e a distruggerlo. Poi passa su una mina e un cingolo si spezza: è impantanato, impossibile muoverlo. Ora per i cinque si tratta di scegliere: prendere i fucili e andarsene, o restare a combattere contro una colonna di 300 SS. Restano.

La lunga serie di film americani dedicati alla Seconda Guerra Mondiale è partita a conflitto appena iniziato con pellicole di propaganda, spesso girate in economia ma alcune anche pregevoli. E’ proseguita negli anni ’50, con la Guerra di Corea in corso, e negli anni ’60, quando la Guerra Fredda stava spostando l’attenzione su nuovi e più sfumati fronti. Tutti quanti esaltavano l’indiscutibile patriottismo del Puro Eroe Americano e la sua superiorità su qualsiasi nemico. Soggetti che osassero appena accennare ad idee pacifiste, o insinuare critiche al comportamento meno che integerrimo di soldati o generali, arrivavano difficilmente alla produzione, o se girati venivano violentemente censurati in fase di montaggio. A lungo furono ad esempio avversati prima il libro, poi il film DA QUI ALL’ETERNITA’ (che fra l’altro si svolge in tempo di pace, prima di Pearl Harbour). Scherzare, con moderazione, si poteva – OPERAZIONE SOTTOVESTE insegna – ma doveva essere sempre netta la divisione fra Buoni e Cattivi, i Nostri e il Nemico.

La vena si è gradatamente affievolita fino quasi ad esaurirsi a partire dagli anni ’70, quando ben altri conflitti, interni ed esterni, hanno occupato la quotidianità degli americani, per riaffiorare nell’ultima quindicina d’anni con alcuni capolavori: nel ’98 SALVATE IL SOLDATO RYAN e LA SOTTILE LINEA ROSSA, nel 2006 i due film paralleli FLAGS OF OUR FATHERS e LETTERS FROM IWOJIMA, mentre del 2009 è l’irriverente divertissement BASTARDI SENZA GLORIA.

Il regista e sceneggiatore David Ayres si è studiato per bene tutta la passata filmografia e lo dimostra in una miriade di citazioni. Fra le tante: chiama il suo corpulento carrista messicano Trini Garcia in omaggio a Trini Lopez, uno degli attori protagonisti di QUELLA SPORCA DOZZINA. Ma ahimé, Ayres non possiede l’epica maestosità di Spielberg, né la sconvolgente visionarietà di Malick, né il patriottismo disincantato di Eastwood; e nemmeno il divertito cinismo di Aldrich.

Mette in chiaro fin dall’inizio che sta facendo un film sulla brutalità barbarica della guerra. Nella prima scena un soldato si alza dal mucchio di letame dov’era nascosto e accoltella un nemico in un occhio (in primo piano, naturalmente). I suoi “eroi” sono brutti, sporchi e cattivi, e non simpatici come quelli di Tarantino: sono super-eroi alla Audie Murphy – celeberrimo autore dell’autobiografia ALL’INFERNO E RITORNO, poi anche film – pluridecorato per avere da solo (!) ucciso 240 soldati tedeschi e catturato 6 carri armati. E insieme sono degli ubriaconi psicopatici che si sentono autorizzati a saccheggiare case e rapinare civili, a stuprare ogni donna tedesca e a sparare alle spalle a prigionieri disarmati. E andranno comunque in Paradiso, perché nonostante tutto sono dalla parte dei Buoni e uccidere tedeschi “è il più bel lavoro del mondo”.

Certo c’è voluto un bel coraggio ad ambientare un film in un carrarmato, che è poi una scatola di sardine da 30 tonnellate: sono molto più affascinanti dei bei duelli aerei, c’è di sicuro più tensione nelle scene di caccia fra sommergibili. Invece qui ci sono cinque uomini che stanno per settimane senza lavarsi in un abitacolo claustrofobico, sotto la pioggia o in mezzo al fango, tanto, tantissimo fango. Una prova fisica non da poco anche per gli attori che, oltre a recitare in un ambiente così ristretto, hanno potuto allargarsi poco in personaggi stravisti e appena abbozzati. Brad Pitt è Don “Wardaddy” Collier, sergente durissimo capace di momenti di inaspettata gentilezza. ShiaLaBoeuf è Boyd “Bible” Swan, uomo di fede ma non per questo meno spietato. Michael Peña è Trini “Gordo” Garcia, messicano grasso e taciturno. Jon Bernthal è Grady “Coon-Ass” Travis, proletario brutale. E infine Logan Lerman è Norman Ellison detto “Machine”, all’inizio per via della suoi trascorsi alla macchina da scrivere, poi perché in poche settimane si è trasformato anche lui in una macchina da guerra.

La sceneggiatura nell’insieme non è delle più fantasiose: una scena di selvaggia violenza dietro l’altra, con file di tank che calpestano, facendoli a brandelli, morti e feriti, amici e nemici, immersi nel fango; e sventagliate di mitragliatrice che segano di netto teste e arti. E’ inoltre una storia dalla moralità alquanto ambigua, dove spesso si confonde uccidere con assassinare, dove l’applicazione del detto “il fine giustifica i mezzi” avalla anche le peggiori torture di Abu Ghraib, dato che “guarda un po’ che faceva nonno in Germania!” Troppo lungo (136 minuti), troppo morbosamente violento e, piuttosto grave per un budget di 80 milioni di dollari, non offre proprio niente di nuovo: che la guerra è un inferno lo sapevamo già, gratis.

M. P.


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