Dopo il refuso dei ticket sanitari per i disoccupati, il governo Monti fa nuovamente dietrofront sulla tassazione delle borse di studio di importo superiore a 11.500 euro: prevista in prima battuta dagli emendamenti al testo di conversione del decreto fiscale, la nuova imposta – che avrebbe colpito i precari della ricerca già massacrati dalla legge Gelmini – è stata ripensata dopo la vibrata protesta dei medici specializzandi. In attesa che la spending review permetta all’esecutivo in carica di assumere – con una certa urgenza – un correttore di bozze, è il caso di riflettere con attenzione sul curioso fenomeno della tassazione a tentoni.
Nell’era dei tecnici, suffragata dalla glorificazione mediatica dell’Agenzia delle Entrate, si inaugura il rito-seppuku della tassa del giorno, non si sa se per dolo o per pasticcio. Dopo le prime iniziative impopolari su equità e sacrifici il governo tecnico si è mosso con maggiore cautela, trasformando la ricerca di nuovi balzelli in un paziente lavoro da ergastolani. L’Imu soffre di schizofrenia e può sdoppiarsi, le bollette di acqua, luce e gas sono aumentate, le accise sulla benzina sono taglienti, le addizionali regionali e comunali Irpef sono una stangata, l’Iva raggiungerà a breve il record del 23%. Ma sono in arrivo anche le tasse di imbarco sugli aerei e persino quelle di sbarco sulle isole minori.
In un milieu così deprimente i dati Istat sul potere d’acquisto dei nostri stipendi non sorprendono più: a marzo 2012 la forbice tra le retribuzioni contrattuali orarie e il livello d’inflazione su base annua ha toccato il suo picco più alto dall’agosto del 1995. Se gli stipendi del settore privato segnano un incremento tendenziale dell’1,7% rispetto all’anno scorso, quelli del settore pubblico, bloccati da quattro anni, sono drammaticamente immobili.
Mentre lo spread continua a mantenersi vicino alla soglia dei 400 punti, i nostri conti pubblici sono condannati a vampirizzarsi cercando nuove entrate per impegni impossibili da mantenere. Le tasse non bastano mai: il mitico tesoretto destinato a una riduzione delle imposte grazie ai proventi della lotta all’evasione si è rivelato una chimera o una bufala, a seconda dei punti di vista.
Non è più solo una questione di liberismo esasperato in tempi di recessione. Quella di tassare soprattutto determinate categorie di persone è una precisa scelta politica, che si pone in piena continuità col governo precedente. Pochi giorni fa, in un’intervista alla Stampa, il ministro Giarda ha dichiarato (in un momento di sincerità?) che «i risparmi, a oggi, bastano appena a non peggiorare i conti. C’è chi ci sollecita a smontare sanità, istruzione e cultura, ma è meglio procedere per passi». È un’affermazione raggelante, almeno nel senso che sanità, istruzione e cultura saranno smantellate gradualmente – dai professori! – perché non c’è altra scelta. Dobbiamo così attenderci che i criteri di revisione della spesa pubblica non intacchino solo auto blu e costi degli arredi ministeriali come dichiarato da Passera e Severino, ma ci privino gradualmente di tutto ciò su cui si fonda lo Stato sociale: una conseguenza perversa, del resto, della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio che Monti si è premurato di imporci con zelo quasi incomprensibile.
Un’altra scelta c’è: i segnali dell’urgenza di un cambiamento sono sempre più importanti. Il Nobel per l’economia Paul Krugman ha condiviso la posizione del NYT sul “suicidio” delle politiche di austerity dell’eurozona, che riducono le prospettive di crescita e i diritti dei cittadini. La Francia sta manifestando insofferenza per l’asse Merkozy, solennemente bocciato tra timide aperture socialiste e rigurgiti reazionari.
E noi? La dura reazione degli specializzandi contro la tassazione annunciata delle borse di studio è il sintomo di un malessere diffuso: quello che impone un profondo rinnovamento della politica e delle politiche di salvezza per il nostro Paese. Non più sacrifici necessari, ma necessaria salvaguardia dei beni comuni, del lavoro e dell’equità fiscale: quella vera, però.