Gabbia. Dentro e fuori.

Da Soniab

La gabbia aveva sbarre in ferro che costituivano un limite verso tutto il resto, un limite non chiuso ma che lasciava vedere cosa c’era oltre.

A volte Derek restava raggomitolato con le ginocchia piegate e strette in un abbraccio, lì in un angolo. Altre volte si sedeva al centro, con il naso all’insù immaginando un soffitto fatto di cielo e stelle. Capitava qualche volta, che si aggrappava alle sbarre, le stringeva con le mani piene del desiderio di spezzarle, liberarsi. Nella gabbia era solo. Ma non sempre. 

C’erano situazioni, anni, mesi, momenti, incontri, vittorie e sconfitte e nuove lotte.  Nella gabbia c’era sempre modo di ricominciare, per tentrae ancora. Quasi sempre.   La sensazione che si generava non era di soffocamento, perchè non si trattava di unascatola chiusa. Bensì di prigionia, quell’essere così vicino all’altra parte eppure nell’impossibilità di esserci, di arrivarci.

La gabbia permetteva anche che il carnefice guardasse, oseervasse, lo stuzzicasse. Proponeva giochi, scommesse, illusioni ambigue ed attraenti. Neppure lui ricordava da quanto tempo la tenesse lì dentro o forse sì, che importanza aveva… Davanti alla gabbia si susseguivano come su un palcoscenico teatrale, marionette, fantasmi, angeli. Tendevano mani, regalvano abbracci, suscitavano rabbia, delusione, gioia, sostegno. Si avvicinavano, s’intrattenevano, restavano chi più a lungo, chi meno e poi si allontanavano.

Solitudine. Compagnia. Ricordo.   Quella gabbia non si sarebbe mai aperta, succhiava energie, fagocitava forze e coraggio.  Derek spesso non si riconosceva, nè nel passato, nè nel futuro. Nel presente, seduto su un altalena, oscillava tra speranze, prese di posizione, tentativi vani di resistenza e accettazione. Anche la gabbia in fondo poteva essere vissuta ancora, accettata con tutto ciò che offriva sullo scenario fuori e dentro.

Guardare e non toccare.   Desiderare e non avere.   Provare e non vincere.   Allungare la mano  e non afferrare.   Prendere e perdere.

Il rumore del respiro era l’unica cosa che J. sentiva se si fermava. Se smetteva di agitarsi, di saltare. Nel vuoto e nel silenzio, il cuore faceva sentire i suoi battiti. Suono sordo, deciso e ritmico. Prepotente. Derek non sapeva  per quanto sarebe stato tenuto lì. Continuava a fabbricare arnesi, armi e trucchi; senza quell’impegno sarebbe stato peggio.   Poteva, doveva.   Nel frattempo la gabbia si allontanava, si faceva vanescente o si appesantiva rendendo il prigioniero invisibile.


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