di Rina Brundu. Non amo i coccodrilli giornalistici in morte di Tizio o di Caio. Non amo i coccodrilli giornalistici perché ritengo che i grandi miti che quei “coccodrilli” tentano di celebrare non hanno tombe e non muoiono mai. Non penso che lo scrittore Gabriel García Márquez sia o diventerà un mito (è destino, questo, che attende gli eroi militari, gli artisti rari e solo gli scrittori alla Oscar Wilde la cui produzione letteraria diventa meta-letteratura nel suo connotare, raccontare una vita reale autorale fondamentalmente “esagerata”); ma se Márquez non diventerà un mito, è indubbio che mito-dell’istante sia il microcosmo letterario e utopico che la sua arte e il suo genio hanno saputo raccontare.
La grande arte letteraria è soprattutto visione e memoria. È visione in quanto fonte di scrittura fresca, pulita, diversa, distante anni luce dalla scrittura che è grammatica, dalla scrittura che è editazione, dalla scrittura che è imitazione, dalla scrittura che è riverenza, dalla scrittura incapace di rivoltare il mondo che interpreta up-side-down. È visione in quanto espressione di una qualità talentuosa e geniale che nasce con l’autore che la esprime e muore con lui; e nel suo esistere diventa glimpse-of-the-past proiettato nel futuro, ovvero una sorta di scatola del tempo, un dardo scagliato a grande velocità nel mondo che verrà, allo scopo di raccontare “allora” il mondo che è “ora”; dare una visione scanzonata, irriverente, dell’universo-del-momento anche con l’idea di far bene intendere ai posteri che l’autore non era spettatore succube, non era spettatore del suo vivere, ma che ne era protagonista, always on top of it never under.
Visione e memoria sono indissolubilmente legate: la grande capacità di visione produce memoria. La grande arte letteraria diventa dunque memoria sovente beffarda del tempo storico che racconta, in opposizione al narrare ammaestrato della Grande Storia che si vuole “seria” e che spesso riesce a risultare soltanto “seriosa”. Ma la grande letteratura è memoria anche a mero livello denotativo: oggi che è scomparso il suo autore nessuno dei venti milioni di lettori di Cento Anni di Solitudine (1967), sente il bisogno di andare a rileggere quel testo per ricordarlo. Quell’opera è infatti diventata parte di noi, parte destinata a non abbandonarci più, alla prima lettura. È diventata… mito.
Ho scritto spesso che la grande letteratura è morta; che non sarà la grande letteratura che racconterà il nostro universo digitale ma che questo verrà raccontato dal cinema avveniristico, dagli scripts ispirati dei Morgan e dei Sorkin, dal genio di qualche blogger oggidì apparentemente anonimo tra le maglie della Rete, e adesso più che mai sono portata a riconfermare quei miei statement. Di più, se dovessi segnare un confine immaginario e offrire una data effettiva di quella “tragica dipartita” non esiterei a dire che la grande letteratura è definitivamente “affondata” a Città del Messico il 17 aprile 2014, il giorno in cui abbiamo dato l’addio a Gabriel García Márquez, l’ultimo dei suoi giganti.
Featured image, García Márquez (al centro) con gli scrittori brasiliani Adonas Gilho (a destra) e Jorge Amado (a sinistra), a casa di amici (anni ’60 circa)