Gabriela Fantato: generazione

Da Narcyso

Gabriela Fantato, L’estinzione del lupo, empirìa, 2012
Emerge prepotente, in questo libro bellissimo, il peso di una parola senz’altro abusata – generazione – ma che si presta ancora alla necessità di un consuntivo, di un’archiviazione delle esperienze e al senso dei lasciti. In effetti Gabriela Fantato dedica esplicitamente il poemetto di apertura, Nostra signora degli insonni a «una generazione dimenticata, quella che aveva intorno ai 20 anni nel 1976, quasi come me», (precisa) e quindi, per estensione, a una fase cruciale della storia sociale e culturale del novecento in cui, con un impeto idealistico che non si è più ripetuto, «senza porte, senza soldi, senza più/ cognomi, solo un pronome/ – noi», eravamo «armati come bambini/ e una faccia da Cesare Pavese [...]con la verità delle mani,/ senza sapere i giorni,/ con la giovinezza che correva/ tra paura e dedizione». Il luogo di questa teatralizzazione dei sentimenti è una casa occupata di Milano, vero spazio della memoria che assurge a simbolo concreto di una crudele e appassionata resa, prima di fare i conti con i nomi rimasti, le attese e le aspettative verso «il farsi adulto e saggio/ della storia». Ed è così che il libro – col suo resoconto di una città che non esiste più, fatta di «riflessi, nient’altro», di case malconce, neanche attaccate al ricordo della loro epopea, di uomini e donne venute da un altrove – dispiega il carico di una umanità che non si nutre più di futuro, di un immaginario ancora abbarbicato allo splendore di un’adolescenza intatta. Tutto questo nello sfondo di una Milano che slitta, fatta di mattoni e lamenti, giardini abbandonati, cortili, e soprattutto parchi, in cui le persone compiono gesti semplici, «centro e periferia senza sosta,/ periferia e centro/ dentro lo spazio senza memoria». Il presente che abitiamo è ora intriso di una dimenticanza, di un essere passati e sfioriti in noi stessi, col ricordo, da bambini, di una casa disegnata dalla neve, «senza confini, senza tetto e le porte», in contrappeso allo stare «dentro queste cellette,/ case piccole,/ dove la paura/ guarda l’orologio / ogni mattina che passa». Essere sempre in viaggio, dunque, tra un treno e l’altro, senza una vero uscio su cui sostare, eppure abitati dal desiderio fortissimo di un trattenere le poche cose della vita che durano, nella nostra infinita utopia di voler resistere all’oblio: «Teniamo stretti i nomi/ e le fotografie. Stretti». Ritorna, in questi versi, il tema del precedente libro di Gabriela Fantato, quell’essere le piccole porzioni di un codice terrestre che ci accomuna tutti, esuli, superstiti, stranieri, i bambini che siamo stati, e i molti bambini che abitano queste poesie, garanti di un pensiero a ritroso, sfiorito, e di un pensiero che deve ancora venire. «E chi mai è il lupo condannato all’estinzione se non il susseguirsi delle paure, lo strano e il diverso che minacciano le regole stantie, la felicità dell’infanzia che non cede alla resa?» (Elio Pecora nella presentazione). In fondo, l’invocazione che apre il libro dedicata a una madonna domestica, quella che abita i piccoli altari dei cortili e dei vicoli, sorridente e umile, a cui si offrono fiori e preci, è la richiesta, in nome di tutti, di un imparare a vivere nel seno di una città che non accoglie mai veramente, in cui, invece, «si sogna ancora la fortuna,/ eppure tutti dentro/ – pressati,/ la violenza tra le unghie».
Sebastiano Aglieco


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