Gabriele Lavia e Giorgio Strehler: una Vita (di Galileo) in Comune

Creato il 20 novembre 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Ventisei attori, ottanta personaggi, oltre centottanta costumi e tre musicisti che suonano dal vivo le musiche originali di Hanns Eisler per la considerevole durata di quattro ore: Gabriele Lavia, nella regia e interpretazione di Vita di Galileo di Bertolt Brecht al Teatro della Pergola di Firenze, ha portato in scena un vero e proprio kolossal.

Vita di Galileo è un testo non molto frequentato in Italia. Iniziato nel 1938, questo dramma tormenterà Brecht per due decenni, riscritto più volte e mai completato a causa della morte dell'autore. Era il 1956, e al centro del dibattito etico e scientifico c'erano le (devastanti) conseguenze delle scoperte sull'atomo.

Quella di Brecht è opera contemporanea e "viva", che si presta a una molteplicità di interpretazioni. Seguendo la maestosa versione di Lavia (coprodotta da Fondazione Teatro della Toscana e dal Teatro Stabile di Torino), essa non può sfuggire al paragone con un precedente illustre, forse il più famoso per quanto riguarda la scena italiana: la regia di Giorgio Strehler.

Vita di Galileo fu rappresentato per la prima volta in Italia al Piccolo Teatro di Milano nell'aprile del 1963 e segnò un punto di svolta nella cultura del tempo: un anno di preparazione, quattro mesi di prove, cinque ore e mezza di durata, polemiche politiche e religiose a non finire (Brecht era pur sempre un comunista!). Frutto più maturo della generazione figlia della Resistenza, come fu definito dalla critica militante, lo spettacolo era nato all'interno di quell'istituzione, centro propulsore di arte teatrale, che Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi avevano fondato a Milano, con l'obiettivo di fornire un servizio in grado di regalare benessere ai cittadini e di rompere il provincialismo che aveva dominato la scena durante il periodo fascista, ricollegandosi alla più avanzata cultura europea e mondiale.

" Vita di Galileo è uno spettacolo nato, come qualcuno ha voluto credere, non per un rigido calcolo, come una "costruzione" fredda, pensata al tavolino, un qualcosa di disumano, frutto di volontà politiche, di argomenti culturali, critici, ma come - e noi lo sappiamo bene - un qualcosa cresciuto giorno per giorno con estremo abbandono, con grande libertà di ispirazione, con pena, tenerezza e molto amore. [...] Vita di Galileo è uno spettacolo che ha come caratteristica un equilibrio assai difficile da raggiungere. Un equilibrio "ai limiti del possibile", ritmico, tonale, plastico", scrive Strehler ai suoi attori dopo il primo ciclo di rappresentazioni dell'opera. Per il regista la scelta di Brecht non costituiva insomma né moda né un recupero tecnico-virtuoso, e conservò tutta la tensione morale presente nel capolavoro del drammaturgo tedesco, il quale, come è noto, ha al centro il rapporto tra ricerca scientifica e potere politico, tra la fede nella ragione umana e il dubbio sui suoi esiti.

Dalla prima stesura (1938) alla seconda (1945-47) di Vita di Galileo, il sottofondo del testo cambia, passando dal nazismo alla bomba atomica. È quest'ultima versione che Strehler riprende con qualche taglio, creando un'esperienza di teatro puramente italiana, che va oltre quella proposta dal Berliner Ensemble.

Al centro della regia di Strehler, piuttosto che un rapporto astratto tra scienza e potere, c'è il legame tra il potere e le masse e, in esso, il ruolo dialettico della scienza e della ragione. In primo piano, la fatalità e il senso profondo della storia. Come protagonista il regista triestino aveva scelto Tino Buazzelli che, grosso e pesante, spiccava nel suo costume scuro, come fosse una metonimia per l'ambiente. Intorno a lui aveva costruito, con l'aiuto delle splendide scenografie di Luciano Damiani, uno spettacolo diventato ormai leggendario, dai ritmi lenti, basato su uno spazio quasi unico, pulito, con tratti di ordine architettonico che ricordavano il Rinascimento (Damiani e Strehler erano partiti da un disegno di Leonardo per dare vita all'impianto che avrebbe poi ospitato cose e attori) e una luce bianca che contrastava col rigore della scena.

"È stato lo spettacolo che probabilmente mi ha colpito di più nella mia vita: ero un ragazzo e non avevo mai veduto prima niente di simile". Bastano forse queste parole per comprendere il bisogno di Gabriele Lavia di cimentarsi con questo testo. E la sua versione di Vita di Galileo, dedicata al grande Strehler, tiene chiaramente conto di quanto il mondo sia oggi cambiato, presentandosi come un omaggio sì fedele all'originale (come di consueto nei suoi lavori), ma che si concede una grande libertà nell'interpretarlo. L'ambientazione seicentesca è ricostruita minuziosamente con l'aiuto di Alessandro Camera (sue le scene) attraverso la scelta visiva di un cupo barocco, con enormi croci che incombono dall'alto e candelabri accesi. Il cromatismo spazia dal nero all'oro, fino al rosso: le scene sembrano tableaux vivants, quadri della pittura spagnola dell'epoca che prendono vita grazie agli sfarzosi costumi di Andrea Viotti e all'uso pittorico delle luci di Michelangelo Vitullo.

Quello di Gabriele Lavia è un Galileo che entra in scena con una veste incolore, ma possiede un'immensa, ironica e tragica attualità, nell'interrogarsi sulla verità e, soprattutto, quando strizza l'occhio al pubblico, sottolineando battute come "Insegnanti pagati meno dei carrettieri" oppure "Uno scienziato per trovare lavoro deve strisciare".

Lavia costruisce un imponente spettacolo corale con se stesso al centro, nella migliore tradizione italiana del teatro del grande attore, declinato verso un impegno morale e civile. "Con questo spettacolo saldo il conto con la mia vita di teatrante", ha dichiarato. E il risultato (e insieme l'omaggio al maestro Strehler) può dirsi assolutamente riuscito.


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