Ogni creazione contamina anche gli animi più freddi quando si fa contraddittoria e originale, e il giardino di Monticello dopo trent’anni stabilisce tra questi parametri un equilibrio in movimento, fatto di ricerca estetica e botanica nel rispetto del paesaggio. Il paesaggio agrario di questa parte dell’Umbria offre ulteriori elementi di qualità paesaggistica che lo sguardo di Gabriella non tralascia mai: sia quando rivolto al fondovalle, dove l’immagine dominante è quella dei grandi campi a seminativo, punteggiati da alberi e residui di siepi e filari, sia soprattutto quando è rivolto alle colline intorno, coltivate prevalentemente a vite e olivo e spesso lavorate a terrazzamenti. La parziale permanenza degli assetti mezzadrili, denotata da campi chiusi e dalle alberature associate ai seminativi, è un valore di storicità. Il giardino si staglia in questa realtà suturando perfettamente ogni ferita del territorio e tesorizzando la ricchezza paesaggistica autoctona, ponendosi in elegante contrasto con essa per restituirci ancora più suggestivo il lirismo di questi luoghi ameni.
Il buen retiro di Monticello è la dimostrazione che piantare, potare, concimare, esigono soprattutto un grande amore. Poi un grande abbandono a se stessi. Avere la coscienza che il giardino che si crea è il giardino nostro, del nostro mondo, della nostra emozione, della nostra espressività, e lo è in modo insostituibile. Perché se si crea un roseto è il nostro roseto; tant’è che si può subito riconoscere un roseto da un altro: quella è la sua voce, è quel suo particolare modo di essere e fare che sviluppa quell’estetica particolare, anche se poi ci sono motivi e segni comuni a tutti noi. L’esperienza è un fatto comune e condiviso, solo che, per il nostro modo particolare di entrare in contatto con la realtà, ognuno di noi dà più importanza a certe cose piuttosto che ad altre, ma non perché le altre non abbiano importanza per quella persona, ma per una sorta di segno, destino, predisposizione.
Se si vuole fare un giardino, e non solo dunque ‘crearlo’, bisogna guardarsi da un’estetica troppo intellettuale o citazionista, troppo di moda. Bisogna cercare un’estetica che nasca da noi. La poesia in giardino richiede un rapporto col mondo che non è certo quello della pianta perfetta. È il giardino che parla nel suo insieme. Oggi Gabriella ha raggiunto questa consapevolezza e lavora per sottrazione. Quando si accorge di cosa non funziona in giardino, elimina il futile. Ha conquistato quella consapevolezza che dimostra che dopo un po’ il tempo ci parla. E quel tempo non è quello degli orologi: giorni, mesi, anni. È il tempo interiore della nostra esperienza: l’esperienza che abbiamo voluto esprimere è passata dentro di noi, è superata. Allora possiamo guardarla come fosse di un altro. È una reazione fredda, la nostra mente guarda e vede quello che non c’è, quello che va bene e quello che va tolto. In quel frangente esatto scatta qualcosa di speciale: fissare l’attimo del luogo o della storia in una vista, o svista, ed è come non abbassare mai più gli occhi su quell’attimo, continuare a riviverne dettagli, sfumature e impressioni. Una giardino è un tassello d’esperienza vissuta e proprio cosi va gustato il giardino di Monticello.
Più ancora di ogni altra arte, il giardinaggio esige il giudizio di valore: ferme restando le oscillazioni personali e storiche del gusto, è necessario fissare alcuni criteri come lo spessore dei livelli di gusto estetico, la non stereotipia botanica e formale, il coraggio e la coerenza stilistica, soprattutto la capacità di fare silenzio dentro di sé per mettersi in ascolto del linguaggio del paesaggio. Questa rara qualità, ma è meglio dire capacità, va allenata costantemente. Qui sta l’eccellenza della Lizza che ogni volta che ritorna riscopre un nuovo giardino, una storia nella storia, ascoltando e riascoltandosi senza soluzioni di continuità. Il giardiniere che reinventa se stesso è un divulgatore insostituibile, un veicolo di conoscenze e un canalizzatore di bellezza con il compito delicato di contaminare l’alfabeto emotivo di ogni persona con cui interagisce condividendo la propria esperienza naturalistica e quindi umana.
L’irresistibile irrequietezza del giardiniere è anche il motore del giardino, la sua vitalità e ne ha bisogno come l’aria che respira, come l’acqua per sopravvivere. Gabriella, dietro la sua apparente imperscrutabilità, cela languori forti e un’inquietudine energizzante. Se il suo giardino non cambiasse il suo corpo continuamente, il suo cervello marcirebbe. Me ne accorgo da come mi guarda, da come mi ascolta, da come osserva ogni singolo dettaglio, da come attende. L’attesa è il climax delle passioni profonde e laceranti del giardiniere sincero.
Le ho chiesto alla fine che ci trova di speciale in quel giardino tanto amato ma ha sorriso e non ha risposto, probabilmente perché i suoi pensieri bighellonavano per conto proprio, come i petali di rose, forse erano andati a spasso per altri climi, in altre terre che non fanno parte del mondo. Alzo i tacchi e abbandono questo lembo di terra che ancora oggi conserva il gusto delle cose belle, un po’ stordito dall’odore dolciastro di ginestre e coronille.
di
Maury Dattilo