Galan risponde a Brunetta

Creato il 10 aprile 2011 da Nonzittitelarte

La cultura non può essere ridotta a un figlio reietto

Il Foglio, Giancarlo Galan -
Caro Brunetta, mai sentito parlare di attività produttive legate alle industrie creative?
Al direttore – La pagina di Brunetta mi ha fatto sentire meno solo, e questo lo avverto come un incoraggiamento di cui lo ringrazio. Il suo intervento ricostruisce la nascita del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, a partire dal 1975 e da Giovanni Spadolini, ma non vi si tiene in sufficiente conto che, in realtà, questo settore un tempo era affidato al Ministero per l’Educazione Nazionale.

C’era in questa attribuzione un eccesso, una forzatura, che però rendeva tutto più caro, dato che si rendeva esplicito che non soltanto vi era il problema di una corretta considerazione di un’eredità di dimensioni straordinarie nel campo dell’arte, dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio, ma ciò evidenziava il valore della conoscenza dell’arte e di quanto sopra appena elencato. Una conoscenza che veniva eletta così a obiettivo di carattere generale, cioè prioritario. Insomma, a parte integrante della formazione delle nuove generazioni, cui le precedenti consegnavano un’eredità fatta di oggetti, spartiti, testi e con questi le strutture e le risorse atte a farla conoscere, trasformando quell’eredità nella cultura del Paese.

Parlando in termini economici, introduciamo pure il concetto di bene pubblico, senza per questo usare l’orrenda espressione che lo fa diventare non un bene in sé, ma il “figlio reietto” del fallimento del mercato, di un incontro mancato tra domanda e offerta. Se si insiste nella metafora, magari usiamo quella di un parco pubblico che beneficia direttamente coloro che vi passeggiano e per i quali potrebbe addirittura essere chiesto un biglietto, sulla base della legge della domanda e dell’offerta. Comunque, metafora per metafora, il beneficio, tramite l’ossigeno, serve a dovere tutti coloro che abitano vicino a quel verde, e questo sia che lo vogliano oppure no, compreso il caso che decidano di recarsi o di non recarsi mai nel recinto del benessere.

I loro polmoni però verranno proprio da quel recinto curati e depurati. Per quanto riguarda l’architettura, i nuovi edifici, purtroppo siamo spesso posti di fronte a esiti non felici, per non dire disastrosi. E questo accade per l’incapacità o il vuoto di una committenza in grado di identificare contenuti e contorni dell’interesse pubblico, orientando le scelte dei singoli allo scopo di realizzare per tutti e per ciascuno un ambiente rispettoso degli individui, delle loro esistenze sia materiali che spirituali. La committenza nell’arte è sempre stata, nella nostra civiltà, in larga misura committenza pubblica. Committenza di sovrani, di stati, della chiesa, di granduchi, principi, borghesi odi “amici della Scala”, di napoleonidi o di abati e padri conventuali.

Tutti costoro svolgevano realmente una funzione di interesse generale. E’ da loro che è nata un’eredità, che alla loro scomparsa è semplicemente passata ad un altro soggetto pubblico, per esempio alla Repubblica italiana. Paradossalmente, i prodotti dell’arte sono definiti, a differenza dei prodotti di uso quotidiano, prodotti caratterizzati da “pratica inutilità” (Kant) o come “manifestazioni dello spirito” (Hegel). Lo stesso Adam Smith fa una netta distinzione tra le “spese improduttive” destinate alla bella vita del signore e le spese effettuate per comprare oggetti, arredi, mobili, quadri, che avendo un’illimitata possibilità di essere goduti nel tempo rappresentano invece qualcosa di ben più simile al più produttivo tra gli investimenti.

Nel contempo, il loro godimento è un valore difficilmente traducibile in un prezzo di mercato, perché si estende, al di là dei diretti fruitori, a coloro che di quei beni sentono parlare, ne intuiscono il fascino, ricevendone a volte benefici “indiretti” vuoi nella lingua che parlano, vuoi nelle scuole che frequentano o nelle conversazioni, che sono più o meno capaci di intrecciare, fino ai libri che leggono. Altro discorso vale per la sollecitazione alla conoscenza delle arti e alla formazione dei nuovi talenti nel campo della musica, della danza e in tutto il resto del più vasto universo della creatività. Ciò significa che la cultura non può essere ridotta all’interno di parametri quali consumo, guadagno, fallimento. E sul punto del fallimento (nelle arti: dalla letteratura ad ogni possibile “avatar”) io sarei assai prudente.

C’è di sicuro un momento immateriale nello sviluppo di fenomeni, che poi diventano economicamente solidi, produttivi, materialmente vantaggiosi. E il momento immateriale lo viviamo quando ci si educa col frequentare musei e teatri, con lo studiare in archivi e biblioteche, i “luoghi” che contribuiscono a formare la grande ricchezza nazionale che siamo soliti chiamare cultura, nient’altro che l’energia che ci consente di vedere, ascoltare, capire, conoscere. Nell’intervento di Brunetta, ciò che sorprende è l’assenza del nuovo, dei grandi mutamenti che si sono avuti in molte parti del pianeta, non esclusa l’Italia, anche se da noi “le città” fanno fatica a tenere il passo con chi da tempo ormai cammina velocissimamente lungo le vie della creatività. Precedendoci in tal modo di molto nei felicissimi risvolti economici che si hanno praticando quelle vie. Tra l’altro, caro Brunetta, cultura non è solo cinema e musica, ma anche moda, design, oppure la realizzazione di sistemi museali per davvero avanzati. Termino, non limitandomi a citare le già note e benefiche ricadute economiche che la cultura in ogni sua espressione arreca a tante città, sia antiche che nuove, quando però queste effettivamente sappiano proporre cultura. In sintesi, è noto a molti quanto segue: “La cultura , la creatività, la bellezza stanno diventando sempre più elementi di valore non solo culturale ma anche economico e di sviluppo, fonti di nuove forme imprenditoriali e interi settori industriali”.

Mai sentito parlare di attività produttive legate alle industrie creative? Non posso, però, non sorprendermi di quel passaggio brunettesco, dove si insinua che “la rivoluzione goldoniana è figlia della limitatezza di risorse e della scarsa disponibilità di attori famosi, non il contrario”. Ma, caro ministro della Funzione Pubblica, Goldoni e il suo nuovo modo di fare teatro – un nuovo che richiede una nuova lingua, una nuova recitazione e poi tanto e tanto altro ancora – nasce perché la società veneziana ed europea del Diciottesimo secolo avverte che stanno avvenendo profondi mutamenti, sente avvicinarsi la fine e la rinascita, il tutto tra illuminismo e protoromanticismo, nel mezzo di “villeggiature inquietanti”. L’economia, in conclusione, va bene sia prima che dopo, ma ciò che conta è che esista un Paese capace di stare sempre e comunque dalla parte della cultura.

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