Innanzitutto, Peter Dinklage. Ora il suo nome appare per primo, nei titoli di testa. Il che vuol dire tante cose, sopratutto, temo, che il suo Tyrion sia adorkable.
Un nano fichissimo, che nuclearizza i suoi nemici con armi medievali, ma nessuno che lo vorrebbe avere nella propria famiglia, a cominciare da Cersei.
Dinklage è un ottimo attore a cui è capitata una parte grandiosa. Noi ce lo godiamo così com’è, senza ricamarci troppo sopra, anche se le cose stanno come ho detto.
È tutto a favore del realismo, come il cavallo di Tywin Lannister (Charles Dance) che entra nella sala del Trono di Spade, su cui siede il nipote, dopo aver lasciato a terra un ricordino puzzolente.
Ora, i cavalli che defecano, i personaggi che hanno pulsioni sessuali, quelli che si ribellano al proprio signore che vuole mandarli a morire per l’onore, fanno di Game of Thrones una serie realistica, pur essendo fantasy.
Non eccezionale, come ebbi a dire nella recensione alla prima stagione, ma rispettosa degli spettatori. Come Martin è rispettoso dei lettori.
Per intenderci, basta sfogliare un po’ di storia bizantina per capire che la storia, quella vera, è molto più agghiacciante in fatto di intrighi, voltafaccia e perversioni.
Game of Thrones, alla fin fine, è addolcita, ma ben fatta. Non dimentichiamo che è dell’HBO. Tanto di cappello, quindi.
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Seconda stagione che è superiore alla prima, a mio parere.
Gli attori sono a loro agio, hanno confidenza coi personaggi, persino le giovanissime Sophie Turner (Sansa) e Maisie Williams (Arya) sono in parte.
Ottime scenografie, rinforzate in CGI, e una serie di passaggi che possono apparire lungaggini agli amanti delle cazzate veloci e stupide, ma che vanno invece a impreziosire ogni personaggio, persino quelli più antipatici, qualcuno ha detto Catelyn?
Direi che, come preventivato già dall’esordio, Tyrion, il piccolo uomo con l’ombra lunga, fa la parte del leone, e non perché sia un Lannister. Ma perché si è intuito il carisma e il potenziale dell’attore.
La puntata che si ricorda più di tutte è infatti la nona, la cui regia è stata affidata a Neil Marshall. Epica. E, non fosse per la suggestione del nome di chi siede dietro la cinepresa, l’unica in cui si avverte la mano della regia. Puntata diversa per stile, costruzione, dimamismo, effetti speciali ed esiti.
Certo, una puntata di guerra, è facile che resti impressa. E io vi dico che è invece difficile, che resti impressa in positivo.
Costruire l’assedio a Approdo del Re, l’atmosfera dell’ultima notte, e la battaglia, così come Marshall ha fatto, non è da tutti. Al di là del bellissimo fuoco verde.
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Ci sono le distese ghiacciate al di là della Barriera. L’aspra bellezza risalta al di là delle peripezie non-amorose di Jon Snow (Kit Harington), il cui attore si guadagna il premio antipatia e quello per la miglior paresi facciale dai tempi di Fabio Testi. I suoi duetti con la bella Ygritte (Rose Leslie) vanno a costituire l’immortale tema del romance, boy meets girl, osteggiato da fazioni opposte, ma spinto dall’attrazione reciproca.
Vecchi trucchetti di un narratore saggio, che li applica tutti, e li riapplica. Son sempre quelli, e funzionano sempre.
Note di merito per Tom Wlaschiha, Jerome Flynn e Rory McCann. Rispettivamente nei ruoli di Jaqen H’ghar, l’amichetto di Arya dotato (apparentemente) di superpoteri. Fai un nome e lui uccide, per tre volte. Magico perché inspiegabile, a parte l’utilizzo di aghi avvelenati.
Flynn e McCann perché incarnano dei mercenari perfetti, Bronn e Sandor Clegane, il primo al servizio di Tyrion e il secondo di Jeoffrey Lannister. Due uomini pratici, tranquilli finché è il caso, pronti a uccidere, perché è nella natura di tutti, sopraffare il prossimo. Quando vengono ai ferri corti, l’aria è spessa e si taglia. Guarda caso, ancora merito di Marshall.
Stessa cosa la parentesi evocativa tra Sandor e Sansa. Lì, al di là dell’abbondante vino tracannato dal mercenario, si rievocano le gesta medievali, e il rispetto. O forse sono io il nostalgico.
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Daenerys (Emilia Clarke), figlia della Tempesta, sta dieci puntate a frignare, ma le si perdona tutto nel momento in cui guarda i suoi cuccioli di drago, essendone a sua volta adorata, e la si sente pronunciare “dracarys”. Parte uno sbuffo di fumo col cerchietto, e poi le fiamme. E il mondo diventa bello come nelle sue visioni, coperto di cenere. Una di quelle allucinazioni che regalano scorci d’apocalisse.
E parliamo sempre di una serie fantasy, che, negli ultimi istanti dell’ultimo episodio, cambia ancora una volta registro.
Qualcosa sta riemergendo dai ghiacci. Qualcosa di terribile e spettacolare, dagli occhi di bragia (cit.).
E siamo qui a rimpiangere il fatto che siano solo dieci puntate a stagione. Ma forse, è meglio così.
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