Velo d’Astico, Vicenza, anno 2002.
Dopo tanto parlare e scrivere intorno alle affascinanti figure dipinte nella chiesa di S. Giorgio, dopo che di volta in volta in quelle figure si sono visti feudatari, vescovi e signori, finalmente qualcuno ha risolto il mistero del loro significato.
Narratio
Gameba era il soprannome con il quale tutti coloro che lo avevano incontrato ricordavano di averlo sentito chiamare. Per breve tempo, però.
Era infatti sua abitudine soffermarsi per poco in ogni luogo visitato, almeno non oltre i giorni necessari per portare a termine il compito per il quale era stato chiamato e per il quale era pagato.
Non tutti i luoghi gli piacevano o meglio non in tutti i luoghi si sentiva a proprio agio: percepiva che la sua arte non era apprezzata ovunque, non come espressione artistica in sé e neppure perché i committenti provassero avversione nei suoi confronti.
E lui lo capiva e non insisteva oltre.
Invidia forse? Strano a pensarsi, osservando la semplicità e la modestia dei suoi strumenti di lavoro, poco costosi, soprattutto se messi in relazione con il grande impegno di tempo, spazio e forze fisiche necessari al compimento dei suoi lavori.
Nel corso degli anni era stato in Borgogna - bella terra, e ricca anche - ma lì decisamente trionfavano gli artifices - opus artifices probat, lì si diceva - i lapidarii, e per quanti, come lui, viaggiando ricoprivano di colori e immagini quelle pietre squadrate così abilmente, e così abilmente collocate le une accanto alle altre e le une sopra le altre, tutte insieme a formare, passo dopo passo, una sacra architettura, bene, per quelli come lui in Borgogna c’era poco spazio.
Era sceso, dunque, lui uomo del nord, alla ricerca di genti in grado di comprendere la sua arte e di permettere alla sua fantasia e alla sua improvvisazione di librarsi libera nel cielo della spiritualità, in prati che pochi avevano la capacità di calpestare.
Era religioso - e come non esserlo in quel XII secolo così prepotentemente impregnato di spiritualità -, ma la sua religiosità si esprimeva in maniera non tradizionale, attraverso i colori della terra che egli stesso provvedeva a comporre utilizzando ciò Dio aveva messo a disposizione degli uomini.
Proprio per questo, forse, i suoi lavori, per quanto apprezzati per la buona tecnica, non erano di semplice comprensione e spesso rifiutati: né, del resto, Gameba si mostrava particolarmente accondiscendente e comprensivo con quanti cercavano di avvicinarsi e di comprendere nel profondo la sua arte. Nascondeva i materiali utilizzati come se si trattasse di pietre preziose e li teneva rinchiusi in una bisaccia consunta dalla quale sembrava non volersi, anzi non potersi separare.
E poi . . . quelle figure che univano laico e religioso, sacro e qualche volta profano, così difficili da leggere e da interpretare.
Non si trattava quasi mai, come al contrario i committenti avrebbero desiderato e per ciò che avevano pagato, del solito lavoro a fresco che contribuiva a svelare i portentosi misteri della Sacra Scrittura agli analfabeti, né lui si sentiva il solito didascalico autore di immagini semplici - aveva sentito parlare di miniatori dell’Italia meridionale autori di Exultet, veri e propri lavori didascalici a uso e consumo della gerarchia -, per quanto importanti esse fossero per la religiosità del popolo.
Ovunque la sua mano e i suoi pennelli lasciavano segni importanti e indelebili, come se fosse passata una folata di vento, un vento che sconvolgeva le coscienze, che creava turbamento, che affascinava e che ammaliava, ma forse proprio per questo rappresentava un elemento di difficile comprensione.
Nel suo peregrinare, dalla Sassonia ad Aachen, poi verso Parigi, Mâcon, Marsiglia e ancora a nord, attraverso il valico del Moncenisio, aveva conosciuto frescanti che venivano da Nord e da Sud, di Oriente e di Occidente, e da loro aveva appreso tecniche diverse dalle sue. Più di tutti, però, forse per essere uomo del Nord, dicevano freddo e razionale - ma era vero? - era stato colpito da quelli che si definivano Romani, ma che di romano, ai suoi occhi, avevano ben poco.
La carnagione scura, gli occhi piccoli, parlavano sempre della loro terra come della più bella e affascinante che sguardo umano potesse contemplare e amare: Bisanzio la chiamavano, capitale di quelle terre e certo doveva essere affascinante davvero, e raffinata, se dalle loro menti e dalle loro mani potevano scaturire opere di tale raffinatezza.
Ricordava di aver visto qualcosa di simile solo in alcuni codices che si diceva fossero stati miniati per l’ultimo grande imperatore, Ottone il terzo.
Tuttavia, se la sua mente si fermava a riflettere e a ricordare, ecco emergere figure che gli ricordavano l’eleganza di quei profili.
Ricordava di quando, sceso in primavera calpestando le nevi che ricoprivano ancora i ricchi e fertili pascoli del Mont Cenisius, stremato dal freddo e dalle fatiche della traversata, era stato accolto dai monaci che vivevano nel monastero dedicato al principe degli apostoli.
Per la verità non è che in quella valle nascosta e incassata tra i monti facesse meno freddo che tra le stesse nevi del valico ma, per lo meno, i loro fuochi, il calore del refettorio e il loro affetto avevano contribuito a cacciare via i brividi e la febbre che sembravano non volerlo lasciare più. E allo stesso tempo avevano portato un poco di luce nel suo spirito rabbuiato.
Erano trascorsi quasi due mesi dal suo arrivo e le forze erano finalmente ritornate e con esse anche il buonumore: era inoltre sua intenzione sdebitarsi per l’ospitalità ricevuta con l’unica moneta di cui disponeva, la sua arte.
Propose dunque a Mainardo, l’abate, di affrescare una delle sette cappelle che aveva visto frequentate dai monaci nel corso del loro personale pellegrinaggio attorno alla chiesa abbaziale.
Mainardo, uomo di poche parole, ma dallo sguardo vivace ed eloquente, lo prese per mano e lo condusse lungo il pendio che si elevava appena alle spalle del complesso abbaziale e sul quale, a breve distanza l’una dall’altra, si dispiegavano le sette cappelle che ormai, dopo due mesi, gli apparivano assai familiari, sia pure senza esservi, per una sorta di timore reverenziale, mai entrato.
L’abate si diresse senza indugio verso quella più lontana e dal cui piccolo prato che la circondava si godeva una splendida vista sulla valle sottostante, pronta ormai ad accogliere i frutti dell’estate avanzante.
Gameba non capiva quel silenzio e quei gesti compiuti lentamente con religiosa ritualità.
Mainardo estrasse da sotto la tonaca una grande chiave e lentamente aprì la porta della cappella. Il sole che stava salendo da est, già forte e caldo in quella primavera avanzata, contribuì a oscurare l’interno per il forte contrasto che si veniva a creare tra luce e oscurità, quasi simbolo emblematico dei due opposti che da sempre hanno attirato l’uomo.
Alla luce che entrava dalle piccole finestre dell’abside presto i suoi occhi iniziarono ad abituarsi e a mano a mano che il buio lasciava spazio a un debole chiarore, una sorta di stupore frammisto a paura, meraviglia e ammirazione si impadroniva di lui.
Un brivido percorse la sua schiena e le sue ginocchia cedettero sotto tanto peso: cadde su di esse e si segnò.
Mainardo non poteva capire - lui questa volta - che quei gesti erano divisi a metà tra il rispetto per il luogo sacro e l’ammirazione per quelle pareti interamente ricoperte di affreschi dai colori intensi, di volti dai lineamenti inconfondibili, di significati evidenti e frutto delle mani che avevano lavorato in quel luogo.
Riconosceva, in quei tratti, l’eleganza raffinata di quei pittori dalla pelle scura e più di Mainardo sapeva cogliere il significato profondo di quelle figure, sapeva leggere i materiali che erano stati impiegati, sapeva interpretare anche il più piccolo di quei gesti incisi sull’intonaco. Poteva vedere i pittori lavorare intensamente ed alacremente per non fare seccare l’intonaco steso al mattino e poteva vederli, la sera, esausti, ammirare con attenzione i risultati della loro giornata.
Gli pareva di vedere il momento in cui l’ultimo di loro si chiuse alle spalle la porta della cappella dopo aver terminato il lavoro.
Lo sbattere della porta mossa dal vento lo fece trasalire e lo riportò alla realtà.
Mainardo si era allontanato e lo aspettava sul prato, lo sguardo fisso in attesa di vederlo uscire: non ci fu bisogno di parole, entrambi avevano compreso, ciascuno qualcosa che aveva a che fare con il proprio animo.
Gameba che la sua arte non poteva applicarsi a quel luogo che già aveva raggiunto una tale perfezione e Mainardo che il pittore aveva capito e che dunque il suo spirito era elevato e la sua umiltà era grande.
Il pittore del Nord comprese che quello sarebbe stato l’ultimo giorno, per lui, alla Novalesa.
Riponendo gli attrezzi nella bisaccia rivide nitidamente il momento in cui, pochi mesi prima, era giunto all’abbazia stanco e infreddolito. Trattenne a stento le lacrime: quel luogo, quelle persone, quell’atmosfera l’avevano in qualche modo cambiato e la lezione cui l’abate Mainardo l’aveva condotto - e che forse in un altro momento l’avrebbe spinto a una reazione diversa, colma di asprezza e di superbia - era stata per lui una sorta di benedizione.
Senza che alcuna parola fosse uscita dalle loro bocche, egli aveva compreso molte cose e ora, volgendo le spalle al monastero e avviandosi lungo la strada che conduceva a Susa, si sentiva leggero, nel corpo e nello spirito.
A mano a mano che il complesso abbaziale si rimpiccioliva all’orizzonte, iniziavano a riaffiorare quelle immagini che, dal buio della cappella, detta di S. Eldrado per il tema lì raccontato, si erano, prima flebilmente, poi in maniera sempre più nitida, proposte al suo sguardo.
Il suo animo di pittore, che negli ultimi tempi sembrava essersi un poco smarrito riprese vigore e mentre comprendeva che nulla avrebbe potuto aggiungere di più alto a quelle immagini contemporaneamente sentiva dentro di sé che Mainardo aveva voluto dirgli qualcosa di importante. Ora gli sembrava naturale avere abbandonato quel luogo che era stato per lui amore e protezione e incamminarsi su vie che conducevano là dove la sua arte poteva finalmente trovare gli spazi per manifestarsi come mai era riuscita a fare.
Non cercava il successo degli uomini, non il denaro, ma una ricompensa più alta, spirituale, così come sembravano suggerirgli i lontani pittori dalla pelle scura.
Trascorse molti anni - dieci? - durante i quali il suo spirito divenne via via più inquieto.
Lungo le coste della Provenza conobbe uomini dalla pelle scurissima condotti in catene e vide uomini bianchi, poco oltre, trascinati prigionieri da uomini scuri.
Tornò verso nord, attratto dal richiamo della sua terra e si spinse ad oriente al seguito di quei monaci che si dicevano Cistercenses e che operavano incessantemente per dissodare e bonificare terreni sui quali avrebbero eretto grandi chiese abbaziali e molti edifici votati a favorire la coltivazione della terra stessa e alla conservazione dei prodotti.
E lavoravano essi stessi insieme ai laici, sudando e religiosamente imprecando per accelerare i lavori di costruzione di chiese così grandi che solo raramente aveva avuto modo di vedere: e strane, con quegli archi a punta che sembravano creati dalla forza delle pareti che premevano le une contro le altre, così intensamente che la navata sembrava sempre sul punto di restringersi e accartocciarsi.
Ma le chiese restavano in piedi e attorno a loro crescevano i fabbricati di dimensioni altrettanto notevoli all’interno dei quali - non certo come alla Novalesa - trovavano posto contadini, muratori, fabbri e uomini dediti a ogni tipo di attività manuale che potesse contribuire a innalzare gloria a Dio e ad aiutare i monaci nello svolgimento del compito quotidiano di sopravvivenza.
Per quanto ammirato da tanto fervore, tuttavia, Gameba comprendeva bene che per lui non c’era posto in quei territori. Bernardo, colui che più di tutti aveva contribuito alla nascita del nuovo ordo, si diceva nutrisse una forte avversità per ogni forma di immagine, che fosse scolpita nella pietra o dipinta sulle pareti di una chiesa. Gameba non capiva quell’atteggiamento - e poi sarebbe rimasto senza lavoro se tutti l’avessero pensata come Bernardo! -. Lui che, pure credente, non poteva definirsi un grande conoscitore di testi sacri, ricordava tuttavia le parole di papa Gregorio: “Non senza ragione nei tempi antichi si è permesso di dipingere nelle chiese la vita dei santi ... Ciò che è la Scrittura per quelli che sanno leggere è l'immagine per quelli che non sanno leggere ... Le immagini sono il libro di quelli che non conoscono le Scritture”.
Decise allora di andare via e di dirigersi verso sud, inconsciamente pensando di raggiungere le terre degli uomini dalla pelle scura. Optò per sicurezza di non percorrere le aree troppo orientali, che si diceva fossero ancora abitate da popolazioni non soggette all’autorità degli imperatori germanici e di portarsi, allungando un poco il percorso, più a occidente, valicando le Alpi attraverso il passo del Brennero, sufficientemente tranquillo e ampio, oltre che ricco di punti presso i quali chiedere un po’ di ospitalità.
Forse per inesperienza, forse così volle il destino, si tenne troppo a oriente e si ritrovò a dover transitare per una zona di montagna che tuttavia, benché ricca di boschi, gli sembrò piacevole e non particolarmente inospitale: e poi, nonostante tutto con sentieri che al suo passo, ora se accorgeva, non più agile come alcuni anni prima, apparvero sufficientemente percorribili.
A questo punto si rese perfettamente conto che andava a tentoni, senza coordinate e semplicemente seguendo una sorta di istinto nascosto. Dormì all’aperto o con ripari di fortuna, seguendo il sud come fosse una metà agognata. Passò una stretta valle che gli procurò alcuni timori a causa di numerose incisioni sulla pietra di cui non sempre riusciva a cogliere il significato e ancor più, se erano state realizzate da uomini che ancora si trovavano lì e spiavano il suo incedere timoroso.
Finalmente la strada sembrò allargarsi e con grande sorpresa trovò un modesto hospitium - in un luogo noto come Brancafora venne poi a sapere - dove poté riposare e rifocillarsi in maniera adeguata dopo tanti giorni vissuti cibandosi in maniera approssimativa. Poiché nel corso del suo peregrinare aveva raccolto i frutti di qualche piccolo lavoro compiuto qua e là, decise di fermarsi per l’inverno e fu lì che seppe da alcuni uomini che in un borgo vicino, Velo, era appena stata ultimata la costruzione di una chiesa che, nella Settimana Santa sarebbe stata consacrata e dedicata a S. Giorgio.
Si diresse dunque verso quel luogo all’inizio della primavera e, come gli avevano detto, tutto era pronto per il rito che si sarebbe svolto di lì a poco: volle vedere l’edificio, che svelava tutta la semplicità di quelle popolazioni, ma anche la loro povertà. Non vi era un solo piede di muro ricoperto da affreschi e la navata si presentava spoglia e fredda: nulla poteva colpire maggiormente il suo cuore e come in una sorta di stretto legame la sua mente andò a quel giorno in cui l’abate Mainardo gli aprì le porte del paradiso alla Novalesa.
Come poteva restare impassibile di fronte a tanto vuoto? Come poteva accettare che una chiesa fosse consacrata nella più totale nudità dei suoi muri? Forse aveva trovato lo scopo della sua vita e non perse tempo a cercare il presbiter designato a curare le anime di quel villaggio così lontano dalle città affollate che sapeva avrebbe incontrato poche decine di miglia più a sud.
Non voleva denaro, lo fece subito intendere, ma chiedeva in cambio la più totale libertà di espressione nel suo lavoro, sia pure nel pieno rispetto della sacralità dell’edificio. E così ottenne.
E chiese anche di non essere disturbato, ben sapendo che mancavano pochi giorni alla consacrazione e che avrebbe dovuto lavorare sodo. E così ottenne.
E poi chiese se qualcuno era disposto ad aiutarlo nei lavori di stesura dell’intonaco, sempre che qualcuno vi fosse in grado di farlo. E così ottenne, felice che il suo aiutante fosse muto.
Due giorni dopo, come ringiovanito, all’alba prese a lavorare.
L’intonaco steso di fresco aveva nella sua mente i colori e le forme che in breve tempo si era immaginato e così non dovette perdere tempo a modificare e cancellare. Quell’uomo crocifisso sarebbe stato ricordato entro breve, ma Gameba volle ricordare i bambini morti perché Lui si salvasse: quante volte, ascoltando la letture della pagine sacre che ricordavano la strage compiuta da Erode non era riuscito a trattenere le lacrime!
Ma un altro episodio riempiva il suo cuore e a quello aveva deciso di dedicare lo spazio maggiore. Ricordava perfettamente i codici miniati per l’imperatore e vedeva quelle figure stagliarsi entro arcate classiche: avrebbero compreso a Velo il significato di quelle immagini? Non era per lui così importante e certo avrebbe loro spiegato da dove provenivano. Da quel momento per lui non ci fu più sosta e costrinse il suo aiutante a lavorare a intervalli regolari giorno e notte: poteva riposarsi soltanto mentre Gameba lavorava, ma doveva restare lì, pronto ad aiutarlo a stendere l’intonaco per proseguire con celerità
Le figure sulle pareti acquisivano di momento in momento il profilo desiderato dal pittore del Nord: di giorno la luce del sole, di notte le torce, lontane dalle pareti per non rovinare il lavoro, permettevano di continuare senza sosta finché, due giorni prima della Domenica delle Palme, il lavoro era concluso.
Lo avrebbe mostrato soltanto il mattino dopo, non prima comunque di avere comunicato che mentre la popolazione andava a osservare il risultato lui si sarebbe goduto un sonno meritato: poi, se fosse stato necessario, avrebbe risposto a tutte le domande. E così fu.
Non senza un poco di trepidazione le porte della chiesa si aprirono e agli occhi dei presenti si presentò un quadro a dir poco contrastante: le immagini della strage voluta da Erode erano sovrastate per importanza e colore dai quadri superiori. Entro arcate che sembravano di una chiesa si vedevano uomini, ma uomini che non parevano appartenere alla chiesa, anche se riccamente vestiti, forse nobili, offrire doni a un giovane seduto su un trono: e la scena si ripeteva altre due volte, ma variava la figura di colui il quale riceveva i doni.
Lo stupore lasciò a poco a poco il passo a una sorta di smarrimento, di desolazione, poi di rabbia per una raffigurazione che nessuno era in grado di comprendere e che sembrava offendere quel luogo. Tutti i presenti ebbero simultaneamente lo stesso pensiero e si volsero verso la porta con la ferma intenzione di trovare Gameba e chiedere spiegazioni del perché li avesse ingannati con le sue richieste e le sue promesse.
Si voltarono dunque, ma quale fu il loro stupore nel vedere di fronte alla porta tre uomini dalla carnagione scura, in ginocchio e in preghiera di fronte a quelle immagini!
Loro sì, loro capivano e spiegarono agli uomini lì radunati che quelle figure altro non rappresentavano se non i tre Magi che, come raccontavano le cronache orientali, nel fare visita al piccolo nato si trovarono per tre volte di fronte a un uomo diverso: giovane prima, adulto poi, e infine anziano, gravato dal peso non degli anni, ma dalle fatiche di reggere il mondo. Esattamente come i tre uomini che ricevevano i doni erano raffigurati. GAspare, MElchiorre e BAldassarre erano i nomi dei Magi.
Tutti dunque corsero fuori e si recarono nel luogo in cui Gameba riposava per ringraziarlo e per domandargli perdono della loro superficialità. Lo trovarono sorridente sul giaciglio, ma ora egli non poteva dare più risposte, dormiva un sonno lungo e ristoratore accanto alle figure che con tanta forza aveva cercato nel suo cuore e aveva dipinto con i suoi strumenti.
Postfatio
Oggi a Velo d’Astico rimangono due soltanto dei riquadri di Gameba: il terzo è volato via con lui e ha lasciato sul muro pallide tracce.
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Racconto partecipante alla seconda edizione di © Philobiblon (2007)