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Garlasco, una brutta storia che sembra non avere soluzione (Alberto Stasi è stato assolto anche in appello)

Creato il 06 dicembre 2011 da Stenazzi

Così, nel libro Kronaka, ho raccontato la storia terrbile che iniziò il 13 agosto 2007 con l’omicidio di Alberto Stasi

I fari delle Rotonde di Garlasco sparano nel buio verso il cielo,
le colonne luminose sono richiami nella pianura. Quando
c’è nebbia, e qui eccome se ce n’è d’inverno, anche la luce
artificiale fatica a conquistarsi la strada, la nebbia intorno
sembra fumo. Se si potesse guardare dall’alto questo punto
di Pianura Padana nelle sere lunghe del sabato, si vedrebbero
infinite colonne di fari rossi che dall’uscita dell’autostrada A7
MilanoGenova
s’incolonnano diligenti verso i grandi parcheggi
di questa discotecatempio.

Quando la inaugurarono, nel 1964, in mezzo alle risaie
della Lomellina, la gente si chiedeva chi mai ci sarebbe venuto
fino a qui. E invece ci vennero in tanti e continuano a venirci,
tra fine anni sessanta e settanta Le Rotonde di Garlasco fu
il Piper del NordOvest.
Ci sono foto di tutti i cantanti dell’epoca,
l’unica che non ci ha mai messo piede è Mina perché
suo fratello Alfredo morì in un incidente di macchina qui vicino,
sulla statale tra Pavia e Cremona, e lei queste strade non
ha mai più voluto rivederle. Alla fine degli anni settanta su
uno dei palchi delle Rotonde cantò anche Madonna, ma non
la conosceva nessuno, la mandarono via velocemente. Negli
anni ottanta la domenica pomeriggio c’era la fila di ragazzi
in auto che passavano puntuali da queste parti per caricare
le ragazze che uscivano dalla discoteca e facevano l’autostop.

I tempi sono cambiati, ora le attrazioni sono gli ex del
Grande Fratello, se va bene Fabrizio Corona: prendono una
manciata di euro per venire qui e farsi vedere, c’è passata
anche Ruby Rubacuori, quella che doveva essere la nipote

di Mubarak. Al sabato, di notte, fino all’alba, lungo le strade
che si allontanano dalle Rotonde e dalle altre discoteche
della zona, carabinieri e polizia presidiano il territorio, con
i loro giubbotti catarinfrangenti. Non c’è ragazzo sotto i 25
anni di queste parti che non abbia dovuto fare la prova del
palloncino. A volte i controlli non bastano, a volte qualcuno
ci rimette la pelle.

Se si potesse guardare dall’alto questo piccolo punto di
Pianura Padana il mercoledì sera, si vedrebbero invece le
lunghe colonne dei fari rossi delle auto che attraversano le
strade strette per puntare verso il limite del paese, al santuario
della Bozzola. Al mercoledì sera si fanno miracoli, guariscono
le ragazze anoressiche.

Quando è inverno il santuario si scorge appena in mezzo
alla nebbia, tra case e campagna. È dalla metà degli anni
novanta che questo posto è una meta per malate moderne
scortate dalle famiglie in cerca di riti antichi. La preghiera
della guarigione è alle nove, raccontano che dopo la funzione
anche le ragazze più magre provino strane sensazioni allo
stomaco, dicono che sia fame. La gente di Garlasco guarda
da lontano, un po’ infastidita.

Ma le auto arrivano anche cariche di bottiglie e damigiane
vuote, c’è un pozzo da queste parti che esiste da sempre, ora
si dice che la sua acqua sia miracolosa. Il pozzo non è di tutti,
è del signor Ivo Pignatti, giura che l’acqua fa miracoli veri,
che tanta gente è guarita dal fuoco di Sant’Antonio: «Ti lavi
con quest’acqua», dice, «e sparisce tutto». In tanti ci credono,
vengono da fuori, anche se la Chiesa tace e un giorno la
Asl ha mandato i suoi ispettori a chiudere i rubinetti perché
aveva trovato tracce di diserbanti nell’acqua dei miracoli.

Garlasco è un punto di passaggio, un punto piccolo in
mezzo a una pianura, la Lomellina, a sua volta persa nella grande
Pianura Padana. Pavia è attaccata, solo venti chilometri,
Milano è a meno di mezz’ora d’auto. Poi c’è Vigevano, ci si arriva
anche in bicicletta, basta seguire il Ticino. A volte sembra

vero che fin da Pavia si senta il mare, come canta Ivano Fossati.
Lungo la Statale dei Giovi ci passavano lente le Fiat 110 e le
Seicento quando l’autostrada ancora non era stata inaugurata.
Il Piemonte è lì dietro, le colline poco lontane. Quello che si
sente davvero in questi territori è l’umidità, la Lomellina è terra
d’acqua, stretta tra il Ticino, il Sesia, il Po. Era una grande
palude un tempo, furono i monaci nel Medioevo a bonificare
col duro lavoro tante marcite: dai fiumi sono nati centinaia di
canali e rogge, un reticolo infinito d’acqua. Dall’alto sembra
una grande nervatura che si irradia in ogni angolo di terra.
Anche le leggende sono legate all’acqua, raccontano che ad
Albanese, venti chilometri da Garlasco, da un fontanile uscisse
un mostro. Ma era un mostro buono che salvò un bambino
dalle acque cattive che volevano prenderselo. Leggende più
strane e moderne dicono che la Lomellina sia terra di atterraggio
di Ufo. E per questo a Remondò, che da Garlasco è a
soli dieci chilometri, gli americani hanno installato un potentissimo
radar: lo dice il Centro ufologico italiano. Di certo c’è
che in queste terre ci passò un bel po’ di storia: nelle paludi si
scontrarono gli uomini di Annibale e quelli di Scipione e poi,
nel 1600 i francopiemontesi
e gli spagnoli. Ne è corso tanto di
sangue in questi prati marcitori da cui oggi esce ancora tanta
nebbia che sembra poter coprire il mondo intero.

Questi posti li fece conoscere Lucio Mastronardi, scrisse Il
Maestro di Vigevano e dipinse con le parole la nebbia e l’angoscia,
descrisse il lavoro nelle “fabbrichette” di calzature, la
fatica dei piccoli imprenditori e degli artigiani, la vita dura
che un tempo ti ripagava a fine mese ma ora invece chissà, è
tutto più difficile. Racconta il libro, e poi lo raccontò in un
film Pietro Germi, con Alberto Sordi a fare il lombardo triste
e sconfitto, la storia del maestro Mombelli, travolto dall’Italia
del boom economico, convinto dalla moglie a smettere di
insegnare e ad aprire una “fabbrichetta” di scarpe. Tornerà
all’insegnamento il maestro Mombelli, lasciando un mondo
che per lui è troppo duro e cinico. Al nuovo esame d’idoneità
per tornare a fare il maestro declamerà D’Annunzio: «Fa’ di

te stesso un’isola» ma anche «I biscotti italiani sono migliori
dei migliori inglesi». Finirà malissimo Mastronardi: morirà
suicida nel 1979. Qualcuno un giorno lo vide passeggiare
avanti e indietro sul ponte del Ticino: lo ritrovarono ore dopo,
annegato, sul greto del fiume.

Di piccole fabbriche di scarpe ne aprirono tante da queste
parti a partire dagli anni cinquanta: sembrava che il boom
economico non dovesse finire mai: Vigevano divenne in tutta
Italia la “capitale della scarpa”, le esportazioni all’estero
crescevano e crescevano. Lavoro furibondo, intuito, un po’
di voglia d’avventura: questa era la formula.

Raccontava Mastronardi nel suo libro di come allora i maestri
si disputassero i figli più “pregiati”: «Tu passi a me il
figlio dell’industriale, io ti passo tre figli di artigiani».

«Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre
prospettive, chiedo scusa, non ne ho viste». Così iniziava un
reportage di Giorgio Bocca da Vigevano. Continuava così: «Di
abitanti cinquasettemila, di operai venticinquemila, di milionari
a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Non volevo
crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n’era una in via del
Popolo: se capitava un cliente forestiero, il libraio lo guardava
con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un
anno».

Bocca raccontava di posti dove «i contadini possono diventare
ciabattini e i ciabattini industriali nel giro di poche
settimane». Così era Vigevano: «Avanti popolo, la ricchezza è
a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene va
bene».

Alla fine degli anni novanta le piccole fabbriche iniziarono
a chiudere. Colpa dei cinesi, dicono da queste parti.
Colpa delle grandi industrie che vanno a produrre all’Est,
aggiungono. I piccoli imprenditori della Lomellina l’hanno
imparato sulla propria pelle che cosa significa il termine delocalizzazione.

Resistono, ma a fatica, gli agricoltori, i proprietari di risaie
e allevamenti. Ma la maggior parte della gente alla mattina

prende il treno, va a lavorare a Milano. Dall’alba i treni si
affollano, scalo a Pavia e poi Milano, meno di un’ora in tutto.
D’inverno i vagoni sono gelati, la condensa cristallizza l’odore
di caffè. D’estate si soffoca. I bagni dei treni Interregionali sono
inutilizzabili, i pendolari protestano regolarmente ma non
cambia mai nulla. Avanti e indietro, ogni giorno. Gli studenti
prendono l’autobus, partono da piazza Vittoria, di fronte al
parco giochi, e arrivano in viale Famagosta, a Milano. Sono
50 minuti, spesso stretti come sardine. Ogni anno, a settembre,
comitati di cittadini chiedono di aumentare il numero di
mezzi, la risposta è sempre la stessa: non si può, è antieconomico.
Tanti ragazzi studiano a Pavia: c’è una delle università
più antiche d’Europa, è prestigiosa. E poi Pavia porta bene,
ci abitò anche Albert Einstein, quando aveva quindici anni:
in via Foscolo scrisse il suo primo articolo scientifico.

Sono cambiati molto questi posti, è cambiata molto
Garlasco negli ultimi trent’anni, un tempo era un feudo rosso,
poi negli anni novanta è arrivata la Lega a spazzare via
tutto. Nel 2006 in paese è tornata con fatica una giunta di
centrosinistra, una delle poche eccezioni in un oceano verde
e azzurro. Ma alle ultime elezioni politiche la lista che univa
Popolo delle Libertà e Lega è andata oltre il 70 per cento.

Se, ancora una volta, si potesse guardare Garlasco dall’alto,
si potrebbe scorgere un piccolo quartiere di villette nuove,
quasi al limite del paese. Ci vivono le famiglie di artigiani e
piccoli imprenditori, quelli che si sono costruiti la piccola
attività, hanno investito i risparmi in queste case circondate
da giardinetti piccoli e ben curati, sui cancelli le targhette
avvertono “Attenti al cane” e spesso casa e azienda sono la
stessa cosa, tra piano terra e primo piano.

E guardando bene dall’alto, avvicinandosi piano, si potrebbe
scorgere una via piccola e stretta, senza uscita, via Pascoli,
e al numero 8 un cancello conosciuto e una porta vista mille
volte, però in miniatura, una casa diventata plastico, modello,
sezionata in trasmissioni televisive con sguardi che dalle poltrone
bianche si muovono frenetici tra telecamere e piccole

figurine immobili. Le dita si agitano lungo il perimetro in
scala, le voci concitate scoprono «Ecco, Chiara Poggi era lì»,
«Ecco, la bicicletta era appoggiata in quel punto». Bisogna
tornare verso l’alto per allontanarsi dalle voci e vedere che
quella villetta ricomincia a essere casa vera e non un plastico
di figurine. Intorno ci sono i 9 mila abitanti di Garlasco e le
risaie e poi, più in là, Milano, enorme, che si mangia strade
e paesi e arriva ad annettersi tutto. Bisognerebbe allargare lo
sguardo dai tetti di quelle villette e osservarlo tutto dall’alto
questo Nord così poco comprensibile per chi è lontano. E
allora ci si potrebbe immaginare un giorno preciso, il 13 agosto
2007: guardando bene si vedrebbero giornalisti e curiosi
assiepati dietro le transenne piazzate dai carabinieri in via
Pascoli. Si potrebbero vedere tante figure entrare e uscire
dal cancello del numero 8, figure in divisa che si muovono
veloci. È quello ora il luogo più famoso di Garlasco, è qui che
un giorno torrido d’estate iniziò il grande show, lo spettacolo
della vita e della morte che trasformò questo paese nella capitale
del Nord oscuro, quello cattivo.

Ci passeranno tutti in questo show, intorno al corpo di una
ragazza morta giovane. Protagonisti e comparse, criminologi
e carabinieri inesperti, gemelle in cerca di fama e di qualche
fotografia, maghi e veggenti, truffatori e ciarlatani. Ci passeranno
decine di periti. Ci passerà Fabrizio Corona a cercare
di scritturare qualcuno da vendere poi nel grande circo della
realtà. Lui che ha fatto fotografare migliaia di vip, semivip,
aspiranti vip per repertarli in una grande corte dei miracoli,
ha capito che adesso è la realtà che tira, è la realtà che vende.
E più la realtà è brutta e oscura e più va forte.

E tutto parte da qui, da questa piccola via di Garlasco,
da una scala stretta che va verso la “tavernetta” di casa Poggi.
Dal corpo di una ragazza immobile su quelle scale, nel
sangue.

Bisogna immaginarselo questo posto nel giorno che precede
di 48 ore il Ferragosto. Le famiglie sono via, in Liguria o
sulla riviera adriatica: una settimana, dieci giorni, non di più

perché i soldi bisogna risparmiarli, non è più come un tempo
che si stava via tutto agosto. Il caldo è pesante, peggio che
al Sud, sale dall’asfalto delle strade e si abbraccia col cielo
basso e afoso. I bar sono chiusi e così i negozi, in giro non
c’è nessuno e chi è abituato a vedere questi paesi muoversi
veloci dal mattino alla sera si scopre a provare un po’ d’angoscia
nel guardare le strade deserte, l’erba dei prati ingiallita
e secca, i bar e i negozi chiusi, i cartelli attaccati alle cler, che
così chiamano in Lombardia le serrande, con l’immancabile
ombrellone disegnato e la scritta “Si riapre il 2808”.
I rumori
sono pochi e attutiti, si sentono gli squilli del telefono dalle
case deserte dei vicini, i cani non abbaiano, sono al mare con
i padroni oppure in qualche pensione per animali della zona.
In paese sono rimasti in pochi, gli studenti che preparano gli
esami, gli anziani, sentinelle vigili dietro le tapparelle chiuse
per non far entrare la luce. Le famiglie che non riescono a
partire per le vacanze il sabato e la domenica cercano un alito
di fresco sotto il ponte della Becca, dove il Ticino confluisce
nel Po. È un ponte bellissimo, storico, fatto di metallo: con
le grandi piogge del novembre 2010 è venuto via un pezzo,
hanno dovuto chiuderlo. Come a Pompei, certo meno storico
e meno famoso. Ma chi abita da queste parti l’ha presa male,
il ponte della Becca fa parte della storia di questi luoghi.

È in un giorno così che entrano in scena i personaggi di
questa vicenda brutta e famosa. È passata poca l’ora di pranzo
quando un ragazzo compone sul suo cellulare il 118, il numero
delle emergenze. Dice: «Mi serve un’ambulanza in via Pascoli
a Garlasco». Poi: «Credo che abbiano ucciso una persona,
ma non sono sicuro, forse è viva». L’operatore chiede: «Ma
lei cosa vede, cosa è successo?». «C’è sangue dappertutto, lei
è per terra». «Ma in strada o in casa?». «No, in casa». «Ma
è una sua parente?». «È la mia fidanzata». «Lei è in casa
adesso?». «No, sono in caserma, sono arrivato adesso, ora
racconto quello che è successo». Il ragazzo si chiama Alberto
Stasi, ha 24 anni, è biondo e ha gli occhi azzurri. Gli occhi,

quanto se ne parlerà di quegli occhi, dimenticando a volte
indizi e prove e buttando parole e parole su uno sguardo.

E quanto si parlerà di quella telefonata; in tanti, avidamente,
negli anni a seguire andranno a cercare il file in Internet
per ascoltare la voce di Alberto che chiede aiuto. «Non c’è
dolore in quella voce», diranno in tanti, «non c’è paura, non
c’è angoscia».

La storia che racconta Alberto è semplice: «Ho chiamato
più volte Chiara, non mi rispondeva. Alla fine sono andato
a vedere, ho scavalcato il cancello, sono entrato in casa sua.
C’era sangue, Chiara era lì, in pigiama, dietro la porta della
cantina. Ho dato l’allarme». È la versione del ragazzo, non la
cambierà mai.

Il 13 agosto la notizia che a Garlasco c’è stato un omicidio
viaggia veloce, dal paese arriva nei luoghi di vacanza.
Da Falzes, sulle montagne del Trentino, parte sconvolta la
famiglia Poggi. I genitori di Alberto Stasi sono a Spotorno,
hanno una casa: prendono l’auto e in tutta fretta arrivano a
Garlasco. I carabinieri controllano, fotografano, repertano,
cercano di capirci qualcosa. Cento persone verranno interrogate,
nessuno ha visto nulla di utile. La gente di Garlasco
in quelle giornate umide e calde si rintana nelle case. Qui
ormai nessuno crede più che il male sia lontano, che sia solo
laggiù, in fondo all’autostrada, nella grande città. Uscita
Milano, uscita paura. No, non è più così. Qualche settimana
prima del 13 agosto Garlasco era già finita sui giornali per
un fatto grave, drammatico. Era successo che un uomo di
72 anni si era convinto che la moglie, sessantanovenne invalida,
lo tradisse con un vicino di casa, un ivoriano di 40 anni.
Così una sera aveva aperto la porta di casa del vicino e aveva
sparato, su di lui e su un amica di 23 anni che era in casa.
Poi aveva sparato anche alla moglie, senza colpirla. Un anno
dopo i giornali torneranno a occuparsi di quel brutto fatto:
la ragazza, amica dell’ivoriano, era rimasta in coma quattro
mesi e aveva subito otto operazioni per le ferite al volto, alle
braccia, alla colonna vertebrale. Le era stato dato il permesso

di soggiorno ma, contemporaneamente, anche la parcella per
le spese mediche: «Funziona così», le dissero. L’uomo che
aveva sparato, Vincenzo Lamoglie, venne condannato a nove
anni, lo dichiararono semi infermo di mente. «L’è matt», dissero
in paese, «è matto».

Ma questa volta è diverso, qui non c’è un matto di mezzo,
qui c’è solo un feroce assassino. Chiara Poggi era di qui, una
del paese, una di Garlasco. L’hanno ammazzata. Perché? Chi
è stato?

Quante cose cambiano in pochi giorni, quante persone si
mettono in moto, quante storie si incrociano. Il 14 agosto, il
giorno dopo il delitto, una fotografia compare sul cancello
di casa Poggi: c’è Chiara, sorridente, e accanto due ragazze
bionde, magrissime: sono tutte e tre vestite di rosso. Paola e
Stefania sono le cugine di Chiara: le gemelle Cappa, per giorni
si parlerà di loro. Qualche giornalista osserva bene l’immagine:
non è autentica, è un fotomontaggio, quella fotografia
non è mai stata scattata. Le gemelle l’hanno costruita per far
vedere che esistono anche loro, che ci sono, eccome se ci
sono. Protagonisti non sono solo i ragazzi morti, anche quelli
vivi vogliono il loro spazio, l’immagine sui giornali.

Intanto Alberto Stasi è in caserma, lo interrogano per
13 ore, lui ripete sempre la sua storia: «Chiara era lì, sulle
scale..». «Che cosa ho fatto quella mattina? Ho lavorato sul
computer alla mia tesi. Sono uscito solo per andare a vedere
perché Chiara non rispondeva». Il computer l’hanno preso i
carabinieri, l’hanno aperto e chiuso, più e più volte, ci hanno
smanettato sopra parecchio prima di darlo ai Ris. Hanno
combinato un disastro: aprendo e chiudendo i file hanno cancellato
le tracce precedenti. Come si farà a capire se Alberto
ha davvero lavorato alla tesi quella mattina?

Sembra una grande set Garlasco, gira voce che stano arrivando
avvocati importanti, qualcuno giura di aver visto in un
bar l’avvocato Carlo Taormina, quello di Cogne. Altri sono
certi che le tracce dell’assassino portino verso Milano, qualcuno
giura di aver visto arrivare Fabrizio Corona a bordo di

una grande Bentley. È vero, Corona è arrivato a Garlasco:
vuole scritturare le gemelle Cappa, una di loro ha già scritto
un memoriale. Corona insiste, il padre di Paola e Stefania
Cappa lo caccia in malo modo. Corona, prima di tornare a
Milano, si ferma allee Rotonde.

Parcheggiano tante auto “forestiere” in paese, da uno
scende Alessio Sundas, è un agente dello spettacolo, così si
definisce. È diventato famoso perché ha scritturato Marco
Ahmetovic, un ragazzo rom di 22 anni che ad Appignano,
vicino ad Ascoli Piceno, ha ucciso quattro ragazzi investendoli
con il suo furgone. Era ubriaco al volante. Sundas lo fa
fotografare mentre indossa occhiali, magliette, jeans di una linea
che chiama LineaRom. Il guardasigilli Clemente Mastella
apre un’inchiesta, Sundas risponde «Ma non è colpa mia se
Ahmetovic è una star».

Sundas è arrivato a Garlasco, va dritto al punto: chiede ad
Alberto Stasi di scrivere un libro su Chiara: «Ti do 50 mila
euro se lo fai entro un mese». Alberto si gira dall’altra parte,
non risponde, quella volta sì che ha lo sguardo di ghiaccio.

Le televisioni stazionano in via Pascoli, gli abitanti di
Garlasco iniziano a rientrare dalle vacanze, i giornali di fine
agosto sono pieni di racconti sul “delitto dell’estate”. In
paese qualcuno comincia a parlare con insistenza di quello
sguardo freddo, di quel ragazzo che sembra così distaccato:
«Se non è stato lui, chi è stato?».

Alberto vive poco lontano da via Pascoli, in via Carducci.
È una casa più bella, più grande, nascosta dietro una spessa
cancellata di legno. È figlio unico, vive con la mamma e il papà
che ha una fortunata rivendita di autoricambi subito dopo
l’uscita MilanoGenova.
La casa è grande, c’è una torretta
che la fa sembrare un fortino, una scalinata porta all’ingresso,
nel giardino ci sono gli ulivi. Giornalisti e fotografi sono
oltre il cancello, anche loro si dicono: «Se non è stato lui, chi
è stato?». Alberto è gentile, suo papà, Nicola, fuma in continuazione,
con i giornalisti non parla. Tra pochi giorni la situazione
cambierà, Elisabetta, la mamma di Alberto, smetterà di

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abbassare il finestrino dell’auto per rispondere alle domande.
Da dietro il vetro lancerà gesti eloquenti ai giornalisti.

In via Pascoli Giuseppe e Rita Poggi controllano la casa
palmo a palmo. Manca qualcosa? Si cerca l’arma del delitto.
Rita Poggi abbraccia Alberto Stasi, Marco, il fratello piccolo
di Chiara, resta distante, non si avvicina.

Ci sono 1.500 metri di distanza tra la casa di via Pascoli e
quella di via Carducci, dieci minuti a piedi: un filo rosso di
affetto e solidarietà lega le due case in quei giorni. Durerà
poco, quei 1.500 metri diventeranno una distanza siderale,
nessuno percorrerà più quella strada per uscire da una delle
due case ed entrare nell’altra.

Il funerale di Chiara è il 18 agosto. Dentro la chiesa c’è
tutta Garlasco, fuori c’è mezzo mondo, quando la bara
esce sul sagrato c’è il solito, lungo applauso italiano a chi
non può più ascoltarlo. Durante la funzione il prete don
Giorgio, dice: «Con Gesù Cristo ciascuno di noi non può
mentire». Un brivido attraversa la schiena di tutti. Alberto
Stasi è appoggiato ai banchi in prima fila, vicino ai genitori
di Chiara e alle gemelle Cappa. Rita, la mamma di Chiara, gli
tiene stretta la mano. I flash dei fotografi sono ininterrotti,
a un certo punto Rita si volta, fa un gesto rabbioso, tutto si
ferma. Sulla bara di Chiara c’è una corona di rose bianche a
forma di cuore, è di Alberto. Quando esce il ragazzo è assalito
dai giornalisti, lui sibila «Mi fate schifo».

Due giorni prima c’è stata l’autopsia: Chiara è stata uccisa
tra le 10 e le 12, presumibilmente tra le 11 e le 11.30. Non c’è
autopsia che possa stabilire con certezza assoluta l’ora della
morte ma qui a Garlasco, nell’estate del 2007, l’improvvisazione
ha viaggiato libera. La salma dovrebbe essere pesata:
il rapporto tra peso e calore corporeo fornisce le indicazioni
più attendibili sull’ora della morte. A Pavia, dove il corpo
di Chiara era stato portato, manca la bilancia. Nessuno ha
pensato di farla arrivare da Milano. L’autopsia racconta che
Chiara è stata uccisa da un corpo contundente. Si parlerà di

un martello, di paio di forbici da sarto, di una stampella. Sì,
perché una delle gemelle Cappa in quei giorni girava con le
stampelle per un guaio a una gamba. Sarà proprio Alberto
Stasi a dirlo, intercettato dai carabinieri, parlando di una delle
gemelle: «Quella lì deve solo stare attenta che vengano a
sequestrare le macchine, le biciclette, le stampelle».

Va in scena un delirio di ipotesi, sospetti, tutti contro tutti.
Il 23 agosto da un canale che scorre nella campagna nuda
dietro la villetta di casa Poggi, spunta un sacchetto con vestiti
da uomo. Sono macchiati di rosso, è sangue? Sembra la
svolta: l’assassino si è cambiato, ha gettato via i suoi abiti. Si
scopre presto che quei vestiti sono macchiati sì di sangue, ma
di sangue animale.

Spuntano testimonianze: c’era una bicicletta nera appoggiata
al cancello di casa Poggi quella mattina, dice una donna.
Viene sequestrata una bicicletta ad Alberto Stasi, sui pedali i
Ris individuano tracce: è sangue? Non si saprà mai con certezza.
I carabinieri sequestrano il sistema di allarme di casa
Stasi, vogliono capire gli orari di entrata e uscita. Il 30 ottobre
sequestreranno anche la centralina dell’allarme del negozio
di autoricambi del papà di Alberto pr capire se quel giorno
qualcuno è entrato o uscito dal negozio: troppo tardi, ogni 30
giorni la memoria si resetta automaticamente.

Gli errori continuano. È con imbarazzo che, a Chiara già
sepolta, gli investigatori si rendono conto che nessuno ha preso
le impronte della ragazza. Come fare a distinguere le sue
da quelle di un possibile assassino? Il corpo della ragazza
verrà riesumato, l’errore riparato.

Chiara è sepolta a Pieve Albignola, il 1° settembre i genitori
di Chiara ci vanno insieme ad Alberto. I fotografi scattano
immagini da lontano. Intanto Alberto viene iscritto nel
registro degli indagati. La formula è quella di rito: un atto
dovuto. Ma a Vigevano, negli uffici della Procura, il pubblico
ministero Rosa Muscio si è fatta una convinzione: l’assassino
è lì, è a Garlasco, è in via Carducci. Lavora ininterrottamente
il pm, la luce del suo ufficio resta accesa fino a notte fonda.

Ogni tanto, in piazzetta Lavezzari, un poliziotto si avvicina ai
giornalisti che aspettano e bivaccano: «Andate via per favore,
lo chiede la dottoressa».

La domanda che assilla Rosa Muscio e che rimbalza nei
bar di Garlasco e Vigevano è semplice, banale. Alberto Stasi
dice di essere arrivato fino alle scale che portano alla tavernetta
e di aver visto Chiara solo allora. In quella casa c’era tanto
sangue, lo mostrano anche le fotografie. Ma allora, perché
sulle suole delle scarpe che Alberto ha consegnato ai carabinieri
non c’è nemmeno una minuscola traccia di sangue?
E poi non ci sono altre tracce in quella casa, solo quelle dei
familiari e quelle di Alberto. Nient’altro. E la domanda torna,
e tornerà sempre: «Se non è stato lui, chi è stato?».

I genitori di Chiara fanno la loro scelta: è il loro avvocato a
far sapere ad Alberto Stasi che i contatti si devono interrompere:
«Finché non si capirà qualcosa di più i signori Poggi
non desiderano vederla e sentirla».

Il 10 settembre a Garlasco c’è la festa del santo patrono,
san Rocco. Tre giorni di festa in giro per il paese: si mangiano
la polenta e le rane fritte, si beve il vino dell’Oltrepo. Sul
palco, piccoli gruppi folcloristici cantano le loro canzoni in
dialetto, seduta intorno a grandi tavolate di legno la gente si
chiede una sola cosa: «ma quando lo arrestano?».

Vengono accontentati due settimane più tardi: il 24 settembre
Alberto Stasi è prelevato dalla sua casa di via Carducci,
finisce in carcere. Davanti alla prigione c’è gente che lo aspetta:
«Bastardo», gli urlano, «assassino».

In carcere Stasi resterà quattro giorni, seduto sulla brandina,
apparentemente tranquillo. Legge Topolino, al suo
avvocato chiede una cosa sola: «Procurami una foto di
Chiara». Alle guardie carcerarie domanda i nomi di battesimo:
«Vorrei conoscervi per nome», dice, «non chiamarvi
soltanto agenti». Il 28 settembre il giudice per le indagini
preliminari di Vigevano, Giulia Pravon, ordina la scarcerazione
del ragazzo: «Non ci sono indizi», dice. Quello che il
giorno prima sembrava sangue sui pedali della bicicletta di

Alberto è forse qualcos’altro: la certezza è svanita in poche
ore.

Le indagini vanno avanti, compaiono altri personaggi sulla
scena. Una veggente dice: «A uccidere Chiara è stata una
donna», i giornali le dedicano qualche titolo. Poi si presenta
in caserma uno strano personaggio. Si fa chiamare mago
Yaris, ha i capelli ossigenati, dice che l’estate prima di essere
uccisa Chiara Poggi telefonava spesso alla sua trasmissione,
su Varese Sat. Parlava di un rapporto difficile con il suo ragazzo.
I carabinieri vanno a Varese Sat. L’emittente fa capo a
una società di cartomanzia, Magic Star, colpita da sequestri
e arresti per truffa ed estorsione: a fine luglio la Guardia di
Finanza ha messo i sigilli alla sede, i carabinieri entrano negli
uffici e ne escono con decine e decine di registrazioni. Chiara
non ha mai telefonato al cartomante. Nel frattempo il mago
Yaris ha cercato di vendere la sua storia a qualsiasi giornale,
il suo agente è Fabrizio Corona.

Ma è su Chiara e su Alberto che puntano tutte le indagini,
sul loro rapporto, sulla loro vita di ragazzi di provincia del
Nord, lei laureata in Economia e Commercio all’università di
Pavia, lui studente alla Bocconi di Milano. Pronti a vivere la
loro vita: un buon lavoro, una buona famiglia. A Garlasco, e
dove se no? Quando qualcuno chiederà ad Alberto Stasi di
descriversi lui dirà: «Sono normale. Medio normale». È un
bravo studente, Alberto: sempre bei voti, niente da rimproverargli,
un figlio unico che non dà problemi. E lo stesso è
Chiara, si dà da fare, ha studiato, ora fa stage in alcune aziende.
Ogni mattina prende il pullman alle sette del mattino,
è stagista nell’ufficio marketing della Computer Sharing di
Milano. Torna le sera, sempre con il pullman. E quanto indagheranno
gli investigatori su chi incontrava su quel pullman.
Niente, un buco nell’acqua anche quello.

Vite normali di ragazzi normali che sognano di andare via
ma solo per le vacanze, all’estero, in Inghilterra e poi un giorno
speriamo negli Stati Uniti, a vedere New York. La vita?
La vita è a Garlasco, al limite a Pavia qualche sera. Il pub,

Le Rotonde, la multisala Multiplex di Parona. Le gemelle
Cappa descriveranno così Alberto: «Serio, studioso, pacato,
determinato, tranquillo, sereno». Perfetto, quindi. «Solo due
difetti», continua la ragazza: «Era spesso in ritardo ed è vanitoso
nel vestire».

E Chiara? L’amica Maristella dice: «Non avendo una vita
sociale particolarmente vivace non aveva tante cose da raccontare.
La Chiara era una ragazza che si faceva i fatti suoi».
La Chiara, con l’articolo davanti, come si dice in Lombardia.

Poi avevano il loro mondo, Chiara e Alberto, un mondo a
parte. Gli investigatori sezionano i computer, leggono attentamente
i messaggi che i due ragazzi si mandavano in chat.
Tra di loro Alberto e Chiara si chiamano Tato, Tata, Tatina,
Tatino. Lei scrive, quando è a casa da sola: «Se ho paura ti
posso chiamare anche se è tardi tardi?». Lei parla dei suoi
due gatti, i suoi due grandi amori, a parte Alberto. Quando
lui è in Inghilterra, gli chiede: «Quanto ti manco?». Lui risponde
con un ingenuo 8, lei ci resta male, ribatte: «Non ti
manco 10?», lui corre ai ripari: «Solo perché sono a Londra
e ho un sacco di cose da fare». Parlano dei regalini, lui dice
che le porterà completini sexy, lei sta al gioco. Chiara è gelosa,
scrive: «Fai il bravo, mi raccomando. Tato è solo mio». E poi:
«A che ora sei tornato ieri sera?». «Ma come sei tornato tardi,
non li chiudono a mezzanotte i pub a Londra? Quindi????».

Ma dai computer saltano fuori altre cose. Chiara ha conservato
alcuni link: articoli sull’anoressia, sui disturbi di dipendenza
reciproca, articoli sulla pedofilia, ordinati per numero:
1, 2, 3. Dal computer di Alberto escono due video “sexy”:
ci sono lui e Chiara, un po’ imbarazzati, un po’ divertiti.
Ma soprattutto ci sono decine e decine di video pornografici,
quella di Alberto sembra una vera passione. E in mezzo a quei
video porno anche roba pedopornografica.

Quando si viene a sapere, la gente a Garlasco trattiene il
respiro: «Allora è vero, quegli occhi di ghiaccio». Si scoprirà
mesi dopo che quei file pedopornografici Alberto non li ha
mai scaricati, che erano rimasti attaccati ad altri video porno,

che non li aveva voluti. Ma in quei giorni, in quelle settimane,
la notizia basta e avanza: ecco il movente. Chiara ha scoperto
quella brutta passione di Alberto, voleva lasciarlo, voleva dire
tutto ai genitori. Lui l’ha uccisa. Il pm, Rosa Muscio ne è
convinta, Alberto è l’assassino, non ci sono altre piste.

Garlasco è come in una bolla, sembra vivere una vita a
parte, il paese è diviso tra innocentisti e colpevolisti, la gente
aspetta che siano altri a dire «Basta, le cose sono andate così
». Chi deve dirlo è un giovane giudice, si chiama Stefano
Vitelli, è del 1974. La difesa di Alberto Stasi ha chiesto il
rito abbreviato, sarà il giudice per le indagini preliminare a
decidere: pollice alto o pollice verso. Un uomo solo giudica,
un uomo decide.

Alberto Stasi intanto ha proseguito la sua vita: si è laureato
in Economia e legislazione per le imprese alla Bocconi di
Milano: 110 e lode. Ha discusso la tesi a porte chiuse, non
voleva curiosi. La tesi è dedicata a Chiara. Vede gli amici,
parla con loro di tutto, non parla di Chiara. Frequenta una
nuova ragazza, i paparazzi li inseguono.

In tribunale, a Vigevano, arriva con i suoi avvocati, tiene
fissi gli occhi davanti sé, ascolta tutto, prende nota.

Nel piccolo tribunale va in scena una battaglia vera, cruenta,
tra accusa e difesa. Perizie contro perizie. Ci sono le tracce
sui pedali della bicicletta. Per l’accusa si tratta del sangue
di Chiara ma la difesa ribatte: «Le analisi non dimostrano
la presenza di emoglobina». Insomma, quello potrebbe non
essere sangue.

Ci sono poi le impronte di Alberto sul dispenser del sapone
nel bagno della villa di via Pascoli. Dice la perizia dell’accusa:
«Appare suggestivo che le uniche impronte dell’indagato, oltre
a quelle rinvenute sul cartone per il trasporto della pizza,
siano state individuate sull’erogatore del sapone liquido, davanti
al quale ha sostato l’omicida con le scarpe fortemente
imbrattate del sangue della vittima». Macigni contro Stasi?
Niente affatto perché per la giurisprudenza italiana un rilievo
dattiloscopico ha valore probatorio certo solo quando ha 16

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punti (si dicono minuzie) in comune con l’impronta di una
persona. Una delle presunte tracce dell’anulare di Stasi ha 13
minuzie, non ha validità giuridica.

Sono state trovate tracce nella villa di via Pascoli. Ci sono
quelle dei familiari di Chiara, quelle di un falegname che
qualche settimana prima del delitto ha fatto dei lavori nella
villetta. E ci sono tracce dei carabinieri, tante. Tante tracce,
scrivono le perizie «esibiscono una suola a carro armato, tipica
delle calzature pesanti, nonché di quelle militari». Nell’aula
del tribunale si scopre di più: che un sofà è stato spostato dai
carabinieri intervenuti sulla scena del delitto: «L’originaria
posizione del divano, così come ripreso dall’Arma territoriale
di Pavia all’atto del primo sopralluogo, era parzialmente sovrapposta
all’area in cui sono state osservate le tracce».

È l’aprile 2009 quando si decide la prima volta il destino
di Alberto. Il giovane giudice ha ascoltato tutto, annotato
tutto, ha davanti a sé migliaia di fogli. Ora quando arriva in
tribunale lo riconoscono. Il giorno della prima udienza si è
presentato a piedi, con un zaino in spalla, dentro il computer.
I carabinieri lo hanno fermato: «Oltre queste transenne non
passa nessuno gli hanno detto». Lo avevano scambiato per un
giornalista. Adesso lo conoscono, la sua faccia per settimane
intere è stata su tutti i quotidiani. Il 30 aprile è il giorno
in cui è prevista la sentenza. I bar del centro di Vigevano
sono pieni di gente che parla del processo, ma sono solo
giornalisti, curiosi non ce ne sono, la gente di queste parti
ora ostenta indifferenza. I collegamenti Tv con le trasmissioni
del pomeriggio sono continui. Si usano frasi a effetto: «Tra
poco Alberto Stasi conoscerà il suo destino». Non sarà così.

Il giudice ha ragionato molto, ha fatto quello che gli hanno
insegnato, quello per cui ha studiato. Si è tolto dalla testa
gli occhi di Alberto Stasi, si è tolto dalla testa le impressioni
e le voci. Ha guardato più in là, e più vicino. Ha guardato
le prove. Quando il giudice legge la sua decisione è come
se buttasse all’aria tutto: sette pagine azzerano ogni cosa. Il

giudice legge: «Emergono alcune significative incompletezze
di indagine che per la loro rilevanza devono essere oggetto
di un approfondimento istruttorio». Del computer di Stasi
dice che sono stati fatti passi «metodologicamente scorretti».
Tutti fuori, tutti al lavoro. Il giudice ordina nuove perizie.
Con quelle che ha in mano non è possibile vederci chiaro.
Sarà un’altra lunga estate a Garlasco. Un’estate passata ancora
alla ricerca di prove e di certezze, esattamente due anni
dopo la morte di Chiara Poggi.

Ci sono più di venti periti, tra accusa e difesa, esaminano
tutto dal principio. Alberto è entrato di nuovo nella casa di
via Pascoli, lo hanno fatto camminare, hanno misurato la
falcata, le sue scarpe sono state analizzate più e più volte. Ma
è sul computer che si concentrano le attenzioni. E da lì arriva
la sorpresa delle sorprese. Perché i superperiti nominati dal
giudice Vitelli spiegano che sul quel computer, tra il 14 e il
29 agosto 2007, prima che fosse consegnato ai Ris, sono state
fatte «incaute esplorazioni». Incaute? Quanto incaute? Molto
incaute. I periti usano il termine devastazione. «La portata
delle alterazioni», dicono «è quantificabile nel 73.8 per cento
dei file visibili. Un disastro. Uno dei superperiti nominati
dal giudice è un vero genio. Si chiama Maurizio La Porta, ha
lavorato giorno e notte senza fermarsi, è riuscito a realizzare
un programma informatico in grado di far riemergere dati
collegati alla tesi di Alberto. Sono sequenze numeriche che
alla fine di un percorso complesso diventano date, ore, minuti.
Il risultato lascia tutti a bocca aperta: Il 13 agosto 2007, dalle

9.36 alle 12.20, Alberto Stasi era davanti al suo computer. È
una bomba vera: si torna indietro, tutto da rifare.
A dicembre si è di nuovo in aula. L’avvocato di Alberto,
Angelo Giarda, esordisce così: «Sa signor giudice che cosa mi
sarei aspettato da questa pubblica accusa? Si imponeva un solo
atteggiamento. La pubblica accusa doveva dire: “Scusate,
ci siamo sbagliati, chiediamo l’assoluzione”. E invece no».
Già. Invece no. Il pubblico ministro, Rosa Muscio, ha tentato

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di spostare in avanti l’ora della morte di Chiara, di costruire
un nuovo scenario. Ma è tardi, anche se resta e resterà sempre
convinta della colpevolezza di Alberto Stasi.

La decisione di Vitelli è attesa, quasi inevitabile dopo i
risultati delle perizie. Il giudice si chiude in camera di consiglio
per quattro giorni, ne esce il 17 dicembre alle cinque del
pomeriggio. Alberto Stasi è assolto. Lui prende il telefonino
e chiama il padre, rimasto a casa. Dice: «Libero, sono libero».
Qualcuno lo vede piangere come aveva pianto al funerale
di Chiara. C’è la sua nuova ragazza, gli corre incontro e lo
abbraccia. Il pubblico ministero non ci sta. Lo dice subito:
«Faremo ricorso». Rita, la mamma di Chiara, lascia il tribunale
scura in volto. Anche lei lo dice subito: «Noi crediamo che
Alberto abbia ucciso nostra figlia». Ne è talmente convinta
che sarà lei, con l’avvocato di famiglia, a presentare la richiesta
d’appello per conto della parte civile.

Garlasco apprende la notizia con i telegiornali della sera,
nessuno si stupisce più di tanto. I colpevolisti restano convinti
che Alberto abbia ucciso Chiara, gli innocentisti continuano
a credere che il vero assassino sia altrove, lontano
da Garlasco. Tutti hanno capito che il dubbio resterà per
sempre, ci sarà una verità giudiziaria ma non andrà mai oltre
quel “ragionevole dubbio”.

Bisogna tornare ad alzarsi di nuovo, lasciare le parole e
guardare dall’alto, le risaie infinite, i prati marciti, il santuario
della Bozzola, Le Rotonde. I pullman partono all’alba verso
Milano, i treni Interregionali sono stracolmi. E quelle due
villette, quei 1.500 metri di distanza.

Gli Stasi hanno pensato tanto ad andarsene. Ma sarebbe
stata una resa. Qui è quello che abbiamo, è quello che abbiamo
costruito, poco o tanto che sia. Qui noi siamo a testa alta,
Alberto è innocente.

La famiglia Poggi è rientrata nella villetta di via Pascoli
dieci mesi dopo il delitto. Non hanno mai pensato di andarsene,
il dolore è dolore, dovunque si vada. La vita è scandita da

gli incontri con gli avvocati, dalle udienze dei processi. Dalle
visite alla tomba di Chiara. Che è lì, sorride nelle fotografie,
in casa. Man mano che ci si allontana, come su un aereo in volo,
Garlasco sembra sempre più piccola, persa nell’immensa
pianura. I tetti delle due villette, prima di sparire, appaiono
come due minuscoli fortini, distanti e diversi, assediati dalla
normalità della vita.


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