Gazmend Kapllani – Breve diario di frontiera

Creato il 23 gennaio 2016 da Iyezine @iyezine

Recensione

  • Del Vecchio Editore
  • Anno: 2015
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Breve diario di frontiera di Gazmend Kapllani rappresenta la più realistica e straziante testimonianza di ciò che significa, al giorno d’oggi, essere un immigrato.

Abbandonare la propria patria alla ricerca di una vita migliore, di maggiori possibilità, agi, benefici, per poi ritrovarsi soli e abbandonati da una società ancora troppo aspra e inebetita da rancori strategici.
Kapllani racconta il punto di vista dello straniero, dell’immigrato, dell’uomo ritagliato via dalla società, che è costretto a vivere al margine, sempre e per sempre escluso. Il migrante, un senza-patria, è costretto a vivere costantemente in bilico sul filo del rasoio: “non ti è riconosciuto il privilegio del ‘volere’, sei condannato a vivere sotto il dominio crudele del ‘dovere’. Perché devi farcela. Questo conta soprattutto. È il giuramento che ogni migrante fa a se stesso. ‘Giuro di farcela’ – tale giuramento è la vera patria del migrante”.
Kapllani, come molti suoi connazionali, durante il nefasto periodo del totalitarismo albanese – e più precisamente nell’anno 1991 – fu costretto a fuggire dalla propria casa, dalle proprie abitudini e tradizioni, abbandonando dietro di sé una vita intera, per sfuggire alle violenze e ai soprusi di tiranni dispotici e incontrollabili. “Lo scopo della tirannia è immobilizzare tutto quanto: i pensieri, le ambizioni, persino il tempo. Tutto deve essere reso prevedibile e immobile come in un cimitero. Le tirannie sono spietate soprattutto perché si lasciano dietro società deformi, spossate dall’oppressione e affette dalla sindrome dell‟orfano’.”
Kapllani fuggì dall’Albania, a piedi, fino a raggiungere la Grecia. “Un paese grande (come la Russia per esempio) isolato dal resto del mondo e con le frontiere ermeticamente chiuse, somiglia a una immensa prigione. Invece un paese piccolo come l’Albania con le frontiere ermeticamente chiuse somiglia a una camicia di forza”, scrive Kapllani per comunicare lo stato sociale ed emotivo in cui gli albanesi erano costretti a vivere.
Un percorso molto simile a quello che molti hanno dovuto affrontare, irto e pieno di minacce. Lo stesso tipo di fuga a cui sono costrette milioni di persone, tutt’oggi. Sembra che la storia, scorrendo serenamente nei suoi argini, non abbia insegnato nulla a noi uomini: eppure, questa traversata, questa completa disperazione, è qualcosa di cui abbiamo già sentito parlare, qualcosa che abbiamo già vissuto. Chi dalla parte dello straniero, chi dalla parte di chi straniero non era (e non è).
Ormai è impossibile accendere la tv e sintonizzarsi su un qualsiasi telegiornale senza ascoltare il triste bollettino di innumerevoli morti, naufraghi della completa disperazione, mossi dalla speranza che li vuole, infine, completamente vinti.
Ciò che sta succedendo al giorno d’oggi rappresenta la vittoria completa dell’egoismo e della logica del profitto. Non vediamo neanche coloro che fuggono perché esiste qualcosa più grande di loro, qualcosa che di umanità ha ben poco, e che si chiama Interesse Economico. Fili che muovono burattini di tutto il mondo, e che arrivano a suggerire anche a noi piccoli umani un modello comportamentale. “Anche stavolta niente di nuovo sotto il sole: i ricchi teorizzano il razzismo e i poveri lo applicano nella pratica facendo la guerra ad altri poveri, affinché i poveri diventino sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi”, scrive Kapllani.
Lo strazio e il dramma raccolti in queste pagine, stemperati dalla penna incredibile di Kapllani, gridano al mondo che c’è bisogno di attenzione verso problematiche che stanno devastando l’intero equilibrio mondiale. Ma la totale mancanza di empatia e solidarietà impedisce alla maggioranza del gregge di prestare la minima attenzione a chi, di fronte al supermercato o al semaforo, ha dipinto negli occhi e scavato sul volto un dolore e una pena che fatichiamo anche solo a immaginare.
E, come ha detto un poeta, solitudine non significa mancanza di amici, ma arringare una folla che non ti capisce”. Il messaggio è chiaro come il sole, sta a noi raccoglierlo e dargli vita e attenzione.


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