Generazione A
Douglas Coupland, 2010
ISBN, traduzione di Marco Pensante
400 pagine, 15 euro
In un futuro prossimo, a causa di non meglio specificati problemi ambientali, le api e molti altri insetti si sono estinti. Questo ha provocato effetti collaterali: non venendo impollinate a dovere anche alcune piante diventano sempre più rare. Il miele viene quindi venduto all’asta da Sotheby’s, le mele si trasformano in un bene di lusso.
Anche l’umanità, lanciata senza paracadute nel mondo frenetico della rivoluzione digitale, non vive un periodo felice. Solitudine e sociopatie varie sono all’ordine del giorno, e solo un farmaco chiamato Solon aiuta gli esseri umani a sentirsi meno isolati e a liberarli dal terrore del futuro.
Poi, un segno di speranza: alcune persone sparse per il mondo vengono punte da un’ape.
Hank, coltivatore di mais dell’Iowa; Julien, un ragazzo francese patito di World of Warcraft, Samantha, web-artist neozelandese; Diana, una canadese afflitta dalla sindrome di Tourette; Harj, centralinista dello Sri Lanka; questi i cinque individui che diventano simboli di una possibile rinascita, scelti dalle api per misteriosi motivi. La loro fama fa il giro del mondo, ma non c’è tempo per godersi la celebrità da rockstar.
Prelevati da uno scienziato di nome Serge, i cinque vengono riuniti su un’isola della British Columbia.
Il loro compito, spiega Serge, consisterà nel raccontarsi storie a vicenda. Pur non capendone il motivo, i protagonisti si dedicano a questo Decameron del nuovo millennio; ed è grande la loro sorpresa nel constatare che ogni ognuna delle storie presenta punti di contatto con le altre, in una contiguità di temi che non può essere casuale.
Ideale seguito di Generazione X del 1991 (da cui nacque l’omonima definizione), questo è un romanzo che parte forte.
Affida a capitoli in prima persona le autopresentazioni dei personaggi, la ricostruzione delle punture d’ape di cui sono stati vittime, l’impatto con l’improvvisa celebrità.
Fino a questo punto Generazione A si rivela un turnpager, giocando coi punti di vista dei cinque protagonisti e lasciando intravedere stimolanti scorci di quello che li aspetta.
Quando i cinque si ritrovano attorno a un fuoco e inizia la parte dedicata ai racconti, le cose purtroppo rallentano.
Si fanno via via più palesi gli espedienti metaletterari, si lascia intendere che i personaggi siano per l’appunto tali: creature di carta e non di carne.
Non è certo un meccanismo particolarmente originale, soprattutto in certa letteratura, eppure mi è capitato spesso di apprezzarne i risultati. Calvino, Vonnegut, Pynchon, Wallace, Lethem: gli esempi sono numerosi, e spesso illustri.
Coupland a mio avviso si ferma un paio di gradini sotto, per una serie di ragioni che proverò a spiegare.
Almeno due dei personaggi (Hank e Harj) sono assai riusciti, l’idea dell’ecatombe d’api e delle sue conseguenze è interessante, le storie narrate dai personaggi sono tutto sommato godibili, ma è piuttosto la cornice a scricchiolare un po’. Ed è proprio su quella che Coupland scrive, in un grassetto ben evidente, quello che il romanzo vuol significare.
Il suo messaggio, se vogliamo utilizzare questo termine, che è così riassumibile: la frivola cultura pop, i videogiochi, i social network (citati quasi tutti, e più volte) stanno uccidendo il gusto di stringersi in cerchio per raccontare e ascoltare storie, ossia l’unica chiave di lettura che riesca a restituire un senso al vissuto dell’umanità. Recita infatti l’incipit del romanzo:
Com’è possibile essere vivi e non interrogarsi sulle storie di cui ci serviamo per ricucire questo posto che chiamiamo mondo?
E ancora:
In questa nostra cultura moderna del successo, dove stiamo a marinare 24/7 nelle informazioni elettroniche, ai cittadini si richiede molto e gli ostacoli alla narrativa sono enormi.
Di nuovo, non mi sembra pensiero originalissimo, soprattutto se espresso in maniera così didascalica.
Pensiero che peraltro non si salva da qualche elemento contraddittorio, ad esempio nel posto che assegna ai libri.
Scopriamo infatti che il Solon non risolve i problemi di solitudine rendendo chi lo assume più socievole, ma rendendo sopportabile e preferibile l’isolamento; il paziente entra in una sorta di solitudine autosufficiente, in cui non sente la mancanza di alcun contatto con il prossimo. Al farmaco, come detto, si oppone il potere delle storie come elementi di aggregazione, capaci di cementare lo spirito di gruppo.
Solon cattivo, storie buone, verrebbe da dire; Coupland però ripete più volte che l’assunzione di Solon crea uno stato simile a quello di chi sia immerso nella lettura di un romanzo, e non si capisce quindi come i libri si inseriscano nello schema sopra (non essendo plausibile che le storie raccontate a voce siano buone e quelle scritte siano cattive).
Volendo tirare le fila del discorso, Generazione A stenta parecchio quando è esplicito, quando scade nell’ambientalismo, quando perde di vista quello che è il suo punto di forza: raccontare storie e lasciare al lettore, senza imboccarlo, le conclusioni da trarre.
Ovvero, fare quello che Serge chiede ai protagonisti:
Io voglio storie. Storie inventate da te. Storie senza altro scopo che quello di essere storie.
Quando insomma lo stesso Coupland obbedisce a questa richiesta il romanzo scorre, si legge volentieri e lascia addosso un senso di disagio e solitudine che il Solon sarebbe perfetto per curare.
Peccato non sia così dall’inizio alla fine, e che la voglia di esprimere la visione del mondo dell’autore spesso cannibalizzi il piacere della narrazione in sé.
Pro:
- Tra i personaggi, Hank e Harj.
- Il motivo per cui le storie raccontate dai protagonisti risultano collegate; mi spiace, ma non posso dire di più.
- Molto bella e curata graficamente l’edizione tascabile di ISBN.
- Il titolo, tratto da un discorso di Kurt Vonnegut usato come epigrafe:
E dunque io ora vi battezzo Generazione A e vi dichiaro all’inizio di una serie di trionfi e fallimenti spettacolari, allo stesso modo di Adamo ed Eva tanti anni fa.
Contro:
- Qualche sbavatura concettuale; per esempio, un agricoltore americano e l’impiegato di un call center srilankese che riconoscono a prima vista modello e nome di veicoli militari. Esagero col puntiglio? Forse, ma sorprende che uno scrittore navigato (e il suo editor) non notino l’anomalia.
- L’insistenza con cui si citano i social network, Wikipedia, Google, come se ci fosse ancora bisogno di sottolineare quanto questi strumenti siano divenuti di uso comune.
- La fine contiene buoni spunti, ma arriva in maniera un po’ brusca.