La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
(Art. 4 Costituzione Italiana)
Kelly Services, azienda internazionale di recrutamento di personale, ha promosso una ricerca su diverse generazioni di lavoratori, mettendole a confronto e determinandone i caratteri salienti.
Il white paper (in inglese) risultante, liberamente scaricabile dal circuito IDG Connect previa registrazione, è uno scorcio interessante per riflettere su come si sia evoluto il mercato del lavoro e su come si siano adattate aspettative ed esigenze di intere generazioni per venire incontro alle necessità lavorative.
Benché l’indagine sia stata condotta negli USA, chi si trova oggi a cercare un lavoro può constatare quanto il mercato italiano rispecchi problematiche analoghe, con qualche impasse in più rispetto ai paesi anglosassoni, dovute ad ataviche incapacità politiche e interessi piccolo-borghesi.
La “Generation Y” non è un marchio di jeans, ma è un’intera classe di nati fra il 1978 e il 1995, occupati o meno, “tecnologizzati”, ma dalle aspettative lavorative incerte, in cui dinamismo è sinonimo di precarietà. Sono giovani creativi, convinti che il duro lavoro paghi; nutrono grandi aspettative di successo personale e finanziario (forse, aggiungerei, perché “pompati” dalle belle lezioni accademiche), cercano lavori appaganti dal punto di vista della soddisfazione e non amano essere trattati come l’ultimo arrivato.
Questa generazione viene anche descritta come carente di fedeltà nei confronti del proprio datore di lavoro e che non si lascia intimidire dall’autorità. Per industriali come Marchionne questi due caratteri potrebbero essere deprecabili, un vero e proprio deterrente all’assunzione.
Ma se guardati nell’ottica del cambiamento necessario a tutte le società moderne, non si potrà non convenire che, pur nel rispetto delle regole fondamentali della società, limitazioni della libertà personale sui posti di lavoro e rinuncia ai diritti sindacali non sono concepibili, neanche per salvaguardare il posto di lavoro.
Secoli di lotte sindacali, condotte dalle generazioni precedenti — Baby Boomers e Generation X, come vengono definite quelle degli anni ’46-’64 e ’65-’77 — non possono essere gettate via da accordi di settore per salvare aziende nazionali come la FIAT, che in un mercato globale e internazionale avrebbero da anni chiuso i battenti. Non ricordo cordate per salvare i calzaturifici salentini, che pure assumevano decine e decine di lavoratori; non ricordo cordate per salvaguardare le centinaia di posti di lavoro nell’agricoltura salentina, oggi soppiantata da pannelli solari e discariche.
Se la Generazione X era disposta a spostarsi molto sul territorio in cerca di lavoro o per mantenere il posto, la Generazione Y vuole dare senso al proprio lavoro, vuole uno spazio lavorativo in cui si possano creare relazioni sociali, vuole uno spazio decisionale in cui autodisciplinarsi e responsabilizzarsi: cosa c’è di sbagliato in ciò? Diceva Papa Paolo VI:
Il lavoro è umano solo se resta intelligente e libero.