Genius - Recensione

Creato il 18 febbraio 2016 da Lightman

Berlinale 66

All'interno di un cast di primo livello Colin Firth e Jude Law duettano nei panni dell'editore Max Perkins e del romanziere Thomas Wolfe: un film non particolarmente riuscito che trova colore negli scambi sempre 'accesi' dei due protagonisti.

Nella prolifica New York dei primi anni '20 Max Perkins ( Colin Firth) è editore letterario ispirato e talentuoso, suo è infatti il merito di aver lanciato veri mostri sacri della letteratura mondiale come Ernest Hemingway e F. Scott Fitzgerald. Un giorno, intento nella quotidiana attività di revisione dei testi più disparati che giungono sulla sua ambita scrivania presso la casa editrice Scribner's Sons, Max metterà le mani e soprattutto gli occhi su un manoscritto fiume che porta la firma dell'allora sconosciuto Thomas Wolfe ( Jude Law). Sarà un colpo di fulmine vero e proprio. Rapito dall'apparente disordine di quel testo che invece secondo il suo navigato sesto senso racchiude afflato e poesia, l'editore resterà a dir poco estasiato dal fascino ribelle di quella prosa e deciderà, senza pensarci su due volte, di pubblicare l'opera dell'autore sconosciuto - divenuto di lì a breve il Genius del titolo. Sarà l'inizio di un sodalizio artistico che negli anni a seguire farà confrontare quella coppia di talenti (geni ognuno nel proprio rispettivo ruolo di talent scout e scrittore) in un testa a testa di virtuosismi e creatività, rimaneggiamenti di testi portati avanti con scrupolo e pignoleria estremi. Nasceranno così grandi opere come Look Homeward, Angel (1929) e Of Time and the River (1935). Un sodalizio d'altro canto alimentato da una sorta di ossessione creativa (comune a entrambi) e dal carattere ribelle, 'scomposto', quasi incontenibile del giovane Wolfe. Suscettibile, sopra le righe, spesso anche irrispettoso e cinico, Wolfe mostrerà in quegli anni 'critici' tutta la doppiezza del proprio essere ed esistere. Un'esuberanza che metterà da un certo punto in poi in ombra tutto e tutti, incluse le rispettive famiglie, e in particolar modo la moglie di Wolfe (interpretata da Nicole Kidman), sempre più afflitta dalla crescente lontananza di quel marito in cui aveva sempre profondamente creduto. Più tardi, divenuti entrambi 'schiavi' dell'opera di Wolfe, i due uomini finiranno per allontanare le loro strade, ma il senso unico di quell'amicizia umana e professionale resterà uno di quelli destinati a lasciare il segno, o la firma. Mentre tutt'intorno continuano a orbitare gli influssi dei roaring twenties con le loro esagerazioni, i loro amori, le loro follie. Una stagione prolifica, vibrante ma anche assai fumosa che diverrà poi metafora concettuale di un ultimo grande fasto, così ben delineato nella nostalgia de Gli ultimi fuochi ( The last tycoon) di Fitzgerald.

Genio e sregolatezza

È sempre stato un connubio realistico quello che lega l'eccellenza in qualcosa a una mancanza di disciplina, razionalità e 'senno' in tutto il resto. Colin Firth e Jude Law nei rispettivi panni del serafico Max Perkins e del tempestoso Thomas Wolfe si ritrovano in questo Genius a duettare in uno swing letterario che mette di fronte la compostezza dell'editor alla sregolatezza dell'autore (prolisso ogni oltre ragionevole dubbio, egocentrico, invasato, capace perfino di mettere in un angolo il proprio stesso cuore). Eppure, dalla sbornia creativa di cotanto talento misto a inquietudine, e in una New York quasi cinerea da cui fanno capolino anche un Fitzgerald in crisi artistica e gli squilibri della moglie Zelda, uscirà il nome di un autore acuto, profondo, poetico. Il regista Michael Grandage, celebre autore teatrale, riadatta per il grande schermo e su sceneggiatura di John Logan ( Skyfalll) la biografia scritta da Scott Berg dal titolo ' Max Perkins: editor of Genius' ( Max Perkins l'editore dei geni), un libro in cui si ripercorrono, appunto, tutti i tratti più salienti di questo rapporto unico ed esclusivo tra Perkins e Wolfe. E, tutto sommato, cinematograficamente parlando Genius sembra interpretare questo rapporto in maniera sobria ma viscerale, sfruttando quella che è forse la materia più cara a Grandage (la scena teatrale) per sintetizzare e cristallizzare il lungo e controverso rapporto di due uomini nella fotografia semplice di alcune scene. Parole e vocaboli che si rincorrono, fogli che volano, note e appunti a margine, ma anche momenti di vero confronto umano tra due esistenze unite dagli stessi obiettivi e divise nella loro prospettiva. La New York fumosa degli anni'20 entra così nell'ufficio di Grandage che diventa teatro di un'intuizione, di un grande successo ma poi anche del dramma. Gli interni sono monopolizzati dai volti e dalle parole suadenti di un Colin Firth che stupisce e da uno Jude Law in pieno tumulto creativo. Il focus è tutto su di loro e là dove il film perde di quota e profondità (in più di un'occasione) sono sempre i loro scambi serrati e appassionati a recuperarla in extremis.

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