Era un caldo pomeriggio di luglio e il mare si lasciava cullare tranquillamente dalle onde scintillanti che accarezzavano il suo ventre piatto e morivano dolcemente sul bagnasciuga. Il sole era alto e chiaro nel cielo, tanto che mi scottavo i piedi sulla sabbia incandescente e il costume mi si appiccicava alla pelle sudata. Era tutto tremendamente calmo e in qualche modo vacuo, onirico, come se il caldo eccessivo avesse rinchiuso il paesaggio intorno a me in una gabbia di vetro appannato. Mi bagnai la pancia e i capelli con lo spruzzino nel tentativo di riprendermi. L’odore della crema solare che proveniva dal corpo dei miei vicini mi stordiva il naso e la salsedine mi impolverava le mani e le unghie dei piedi lasciandomi addosso una sensazione di odioso fastidio.
Decisi che non ne valeva la pena di restare lì a morire di caldo e di odio soltanto per una misera abbronzatura (che, lo sapevo per certo, sarebbe stata piuttosto una scottatura) e corsi in acqua saltellando.
Nell’acqua sì che si stava bene. Rimasi distesa su quel materasso fluido a rilassarmi. Chiusi gli occhi, sentivo il mio respiro forte dentro di me, il battito del mio cuore… improvvisamente vidi una piazza. C’era caldo, di nuovo. Sul contorno della piazza si facevano concorrenza quattro bar, tutti e quattro uguali, tutti e quattro con le stesse bibite, tutti e quattro frequentati dai soliti habitués. Nel centro della piazza stavano facendo dei lavori e dietro alle reti di plastica arancione spuntavano montagne di sampietrini, una carriola e due ruspe scintillanti. C’era afa, mi sentivo male. Camminavo barcollando tra le ragazzine piene di sacchetti: era il primo giorno di saldi. Camminavo e nella mia testa si accavallavano pensieri confusi e sfuocati. Dovrei fare anch’io shopping, non ne ho voglia, che schifo quella donna tutta sudata, che imbarazzo passare davanti a tutte queste persone sedute al bar, fai finta di niente, scommetto che inciampi… quand’ecco che, così, senza nessun preavviso, accadde una cosa che mi fece impazzire. Una stupida, grassa quattordicenne con i capelli tinti di nero mi urtò con la sua ciccia molle e mi rovesciò addosso la granita alla menta che teneva in mano. Le onde mi sorreggevano e mi facevano traballare. Sentivo il mio respiro, il cuore mi martellava contro lo sterno. L’insofferenza che mi aveva assalita prima sulla spiaggia ora era tornata e mi contorceva le viscere. Avrei voluto strozzare quella sciocca grassona, le mie mani fremevano al solo pensiero. E invece niente, non avevo fatto niente: non preoccuparti, tanto stasera devo fare la lavatrice. La gentilezza e la sopportazione uccidono. Tornai all’ombrellone. Con discrezione mi accostai alla sdraio della mia vicina, una signora anziana che si era addormentata sotto il sole. Le scossi delicatamente il braccio. Lei sussultò e aprì gli occhi: “Signora, non dovrebbe addormentarsi sotto il sole, le verrà un malore!”, le dissi. E la vecchia, con la bocca impastata e gli occhi socchiusi per la luce improvvisa sillabò: “Grazie, lei è davvero gentile signorina”.