Autore: Michela Matani
Ipocondriaco, soggetto ad attacchi di panico, malinconico e riflessivo, attentissimo ai particolari, Arminio ama attraversare i paesi desolati, appartati, trascurati o travolti dalla modernizzazione capitalistica. E li attraversa col corpo, non con la mente che analizza e investiga; si abbandona alle percezioni, al flusso di visioni, odori, incontri che gli regala il muoversi nell’Italia mediterranea, di confine in confine. «Quasi tutti i giorni vado in giro per i paesi, vado a vedere che aria tira, a che punto è la loro salute e la loro malattia. Vado per vedere un paese, ma alla fine è il paese che mi vede, mi dice qualcosa di me, che nessuno sa dirmi», afferma lo stesso Arminio nel film documentario Di mestiere faccio il paesologo dedicato al poeta da Andrea D’Ambrosio (il DVD corredato da volume è stato pubblicato da DeriveApprodi nel 2011).
Non intende farsi guidare, Arminio, dallo spirito razionalistico di matrice cartesiana che, deificato, ha condotto alla modernità e alla postmodernità distruttive e nevrotiche. All’«autismo corale» che ne è figlio, lo scrittore contrappone la soggettività dello sguardo poetico, l’ascolto della propria interiorità, la sua solitudine di uomo fragile e precario, l’attenzione al dettaglio concreto, l’accettazione della desolazione e della morte, la gioia dell’incontro e della condivisione con l’altro. «Io sono in mezzo al corpo, in mezzo allo spavento e all’incanto di stare al mondo», dice il paesologo, che tiene «la felicità in bocca e la morte vicina all’orecchio». In questa dimensione risiede l’unica salvezza possibile per noi abitanti di un mondo "liquido", secondo Arminio, che riconiuga per questa via concetti cardine della postmodernità rovesciandoli di segno.
Nel rifiuto di soluzioni politico-economiche alla Latouche, il poeta pensa si debba partire da una “rivoluzione interiore” che riconsideri il senso dell’esistere e i suoi valori fondanti. In primo luogo, ritiene che alla nostra «civiltà dei pegni» sia necessario riscoprire il “sacro”. E “sacro” per eccellenza è il sentimento poetico che deve tornare a permeare la vita degli individui. Come “sacra” è la poesia che si fa immediatamente politica nel momento in cui propone una rivoluzione filosofico-antropologica e quindi un modo diverso di stare nel mondo.
Certo Arminio è uomo impegnato: ha denunciato abusi e scempi. In Geografia commossa dell’Italia interna, trascrive percezioni ed emozioni di una giornata apparentemente qualunque, scrive lettere al suo cuore o al figlio Livio o prose-manifesto, ricorda incontri con quei personaggi di paese talmente semplici da passare inosservati alla maggior parte dei nostri sguardi “autistici” e frenetici o talmente eccentrici da essere allontanati o invisibili ai più; ma racconta anche L’Aquila distrutta, le Marche malate, la Taranto violentata.
Arminio sa anche che la politica deve farsi carico del degrado ambientale e non solo, come crede imprescindibile riscoprire e rivalorizzare i paesi e le loro dimensioni. Ma il suo intento primario non è la cronaca di denuncia né il suo è un gretto localismo. La dimensione politico-civile ha le radici nella sua proposta di una rivoluzione antropologica. Passiamoci «la luce del giorno tra le dita» e stendiamoci «ogni tanto con la pancia per terra»; stiamo sempre sul bordo e attraversiamo questo paesaggio e il successivo non cercando mai il centro, che non c’è e non c’è mai stato. Solo così è possibile «costruire il senso di stare da qualche parte nel tempo che passa».
«Oltre la decrescita» e altre soluzioni progressiste alla crisi postmoderna ipertecnologica ed economicistica, Arminio è per «una religione che ci dia quiete, che ci faccia accettare quietamente l’assurdo della condizione umana, ma anche la sua miracolosa bellezza». Da qui si deve partire. Nulla altrimenti servirà.