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Geopolitica monetaria: quale futuro per lo yuan?

Creato il 13 giugno 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Geopolitica monetaria: quale futuro per lo yuan?

La comparsa di nuovi protagonisti nell’arena internazionale ha contribuito al passaggio da un mondo unipolare ad uno multipolare, dove le decisioni, per quanto difficile, vengono discusse di concerto nei vari fora senza che un solo Stato possa prenderle e imporle unilateralmente al resto della comunità internazionale. Tuttavia, ad un aumento del numero di importanti attori politici ed economici non è corrisposto, a ben vedere, un moltiplicarsi di valute con un rilevante peso specifico, rimanendo infatti le valute delle economie emergenti ancora deboli. Anche in questo campo però vi è un importante cambiamento in atto con l’ascesa dello yuan. Il governo cinese sembra determinato a rendere la propria valuta un’importante protagonista dell’economia globale e per questo sta adottando misure progressive per la sua internazionalizzazione.

“Grandi potenze hanno grandi valute”

La crisi finanziaria globale ha gettato non poche ombre sulle due principali monete dell’economia globale, il dollaro e l’euro, tanto da sollevare la questione se siano ancora idonee a ricoprire il ruolo di principali (e di fatto esclusive) valute internazionali. Nel 1993 il premio Nobel per l’economia Robert Mundell scriveva che “grandi potenze hanno grandi monete”. Tale concetto calzava perfettamente per il dollaro. In effetti, in quel periodo, gli Stati Uniti uscivano vincitori dallo scontro con l’Unione Sovietica, divenendo incontestabilmente gli arbitri degli equilibri globali. Nel 1992, inoltre, prendeva avvio, con il Trattato di Maastricht, il progetto dell’euro, primo ed unico esempio finora di accordo tramite cui grandi e medie potenze hanno consensualmente rinunciato alla sovranità monetaria in cambio di una moneta unica che secondo alcuni analisti avrebbe potuto superare il dollaro come principale valuta internazionale. Circa venti anni dopo, ci ritroviamo con gli Stati Uniti che, non essendo riusciti a gestire il mondo unipolare al cui vertice si erano ritrovati, hanno iniziato a perdere influenza e visto la loro leadership sfidata da potenze emergenti. Inoltre, negli ultimi anni la potenza economica statunitense è cresciuta a debito, assorbendo, paradossalmente, risorse dalle economie più povere e originando gli squilibri globali che hanno condotto alla recente crisi finanziaria. In Europa, invece, tra alti e bassi, il progetto “euro” ha rischiato di fallire con la crisi dei debiti sovrani di alcune economie dell’Eurozona, mettendo in evidenza tutti i limiti della moneta unica e in generale del progetto di integrazione europea.

Tuttavia, gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza mondiale per economia, potenza militare e presenza globale mentre l’Unione Europea, sebbene non sia uno Stato, con tutti i limiti che ciò comporta sia sul piano interno sia nel momento di proiettare all’esterno la propria potenza economica, primeggia come economia, democrazia e rispetto dello Stato di diritto. Dunque, a due realtà indebolite non possono corrispondere che due monete indebolite rimanendo, però, ancora le due maggiori potenze globali con due grandi valute, dollaro e euro, che costituiscono rispettivamente il 61,2% e il 24,4% delle riserve valutarie internazionali1. Se ipotizziamo che “l’assioma” di Mundell sia sempre valido, come penso che sia, anche il suo contrario deve essere ritenuto valido, ossia “piccole valute appartengono a piccole potenze”? L’interrogativo diviene rilevante se considerato rispetto al caso cinese. Infatti, lo yuan non può essere ancora considerato una grande moneta, quindi, se ci volessimo attenere alla validità dell’assioma, la Cina non potrebbe essere considerata una grande potenza? Attualmente la Cina è la prima potenza esportatrice, la seconda economia mondiale, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con una sempre maggiore presenza globale, per cui molti analisti e commentatori la intravedono come possibile unica antagonista degli Stati Uniti a livello mondiale, portando alcuni a parlare di un possibile G2, ossia un duopolio della governance globale. Quindi potremmo considerare che il nostro “assioma”, legando indissolubilmente la grandezza di uno Stato a quella della sua moneta, anticipi di fatto l’inevitabile ascesa dello yuan, il cui ruolo nell’ordine monetario è ancora tutto da decifrare.

Le condizioni necessarie di una valuta internazionale

L’utilizzo meccanico della moneta nella società fa passare in secondo piano le funzioni che essa svolge al pubblico in generale: intermediaria degli scambi (moneta come strumento di pagamento), fondo valori (moneta come riserva di valore) e unità di conto (moneta come misura del valore). Queste funzioni proprie di qualsiasi moneta nazionale vengono svolte a livello globale anche dalle valute internazionali. La letteratura prevalente, nell’esporre le funzioni di una moneta internazionale, scinde l’analisi a due livelli, quello privato e quello pubblico. Quindi, a livello privato avremo che la moneta svolge nelle transazioni tra gli operatori privati con l’estero le funzioni di: i) intermediaria degli scambi internazionali di beni, servizi e attività finanziarie, ii) scorta di valori e iii) valuta di fatturazione. A livello pubblico distinguiamo le funzioni di i) valuta di riserva, che indica la sua capacità di costituire stock di mezzi ufficiali di liquidità internazionale da utilizzare in caso di eventuali squilibri delle bilance dei pagamenti, ii) valuta di intervento, ossia suscettibile di essere utilizzata nel mercato dei cambi a sostegno dei corsi delle valute nazionali, iii) unità di misura nella quale le parità delle singole valute nazionali possono essere espresse. Affinché una moneta nazionale possa svolgere queste funzioni ed essere utilizzata anche all’estero, sia da operatori privati sia da altri Stati, è necessario che lo Stato che emetta questa valuta sia una potenza mondiale a livello economico e commerciale, abbia un mercato finanziario maturo e un solido e stabile quadro istituzionale. E in un dato periodo storico solo una o massimo due valute presentano contemporaneamente queste condizioni in modo significativo, finendo quindi per differenziarle rispetto alle altre valute.

Un’originale tassonomia delle valute è quella proposta dal professor Benjamin J. Cohen che le classifica gerarchicamente descrivendo un’ipotetica Piramide Monetaria (Currency Pyramid) in cui distingue tra Top Currencies, Patrician Currencies ed Elite Currencies. Le Top Currencies sono quelle valute il cui scopo e dominio sono più o meno universali2 e che sono generalmente accettate per tutti gli scopi. Ad oggi solo il dollaro statunitense ricopre questo ruolo, e nonostante che la recente crisi finanziaria abbia inferto un colpo significativo alla sua credibilità di principale, e di fatto, esclusiva valuta internazionale, riaprendo un dibattito mai chiuso sul “privilegio esorbitante”3 del dollaro, le probabilità che venga spodestato nel breve-medio periodo dal vertice restano scarse.

Al gradino inferiore troviamo le Patrician Currencies, descritte come valute il cui uso per scopi internazionali, sebbene sia rilevante, è meno dominante e la sua popolarità, sebbene diffusa, è meno che globale . Sicuramente ritroviamo in questa categoria l’euro. La moneta europea, sebbene all’inizio era accreditata per diventare una seria “minaccia” al dominio del dollaro, non è mai riuscita a passare ad una dimensione realmente mondiale rimanendo il suo uso legato soprattutto alle regioni limitrofe dell’Europa Orientale e del bacino del Mediterraneo. Un’altra valuta inclusa in questa categoria è lo yen giapponese, sebbene lo scoppio della bolla speculativa a inizi anni Novanta e il conseguente decennio perduto dell’economia nipponica ne abbiano ridotto le prospettive. Inoltre le recenti politiche monetarie accomodanti della banca centrale giapponese e la concorrenza dell’economia cinese nella propria regione di riferimento potrebbero infine circoscrivere ulteriormente l’utilizzo globale dello yen.

L’ultima categoria descritta da Cohen è quella delle Elite Currencies che include quelle valute che hanno un’attrattiva sufficiente da qualificarle in certa misura per delle attività internazionali sebbene scopi e dominio siano molto limitati . Tra queste minori valute internazionali ritroviamo la sterlina britannica, il franco svizzero, il dollaro australiano e canadese e poche altre ancora.

Da questa classificazione si possono trarre due considerazioni. La prima è che questa classificazione non è statica in quanto la posizione di preminenza di una moneta dipende dal ruolo che svolge nell’arena globale il suo Paese di emissione in quel determinato periodo storico. La seconda considerazione è che le condizioni elencate precedentemente per l’affermazione di una valuta come valuta internazionale – dimensione economica e commerciale, grado di maturazione del mercato finanziario e solidità e stabilità del quadro istituzionale – sono necessarie ma non sufficienti per una Top Currency. A queste dobbiamo necessariamente aggiungere il ruolo geopolitico ricoperto da uno Stato a livello internazionale e la sua volontà di internazionalizzare la valuta, altrimenti basandoci solo su parametri economici non potremmo spiegare fino in fondo perché lo yen e il marco tedesco degli anni Ottanta e l’euro pre-crisi non siano riusciti a scalfire la posizione del dollaro6. Infatti, né Giappone né Germania, e poi Unione Europea, sono riusciti a costruire una solida presenza globale né tantomeno i loro governi hanno espresso una strategia di internazionalizzazione delle loro rispettive valute. Le prime due, uscite sconfitte dalla Seconda guerra mondiale, hanno ricoperto un ruolo marginale a livello politico costituendo di fatto l’oggetto di decisioni altrui. In qualche modo l’esonero dal partecipare attivamente alla soluzione di crisi internazionali ha permesso loro di concentrarsi sulla crescita economica, ma ciò ha anche costituito il loro limite quando, riabilitate dalla comunità internazionale, gli è stato richiesto di ampliare il raggio della loro politica e responsabilità internazionali. Il caso è ancora più emblematico per l’UE che dal punto di vista della dimensione economica e commerciale è sullo stesso piano degli Stati Uniti. La differenza maggiore viene infatti proprio registrata nella sfera politica dove l’UE, a causa di una scarsa presenza globale – debole in America Latina, praticamente assente in Asia Centrale e Asia-Pacifico e subalterna a quella statunitense in Medio Oriente – non riesce ad esercitare un’influenza politica determinante al di fuori dei suoi confini.

Il caso del Medio Oriente, in cui per vicinanza, storia, legami culturali e interessi economici l’euro dovrebbe essere la valuta dominante dell’area, evidenzia proprio come sia difficile modificare una situazione consolidata in cui una valuta internazionale abbia acquisito un ruolo rilevante nelle tre funzioni elencate – intermediaria degli scambi, fondo valori e unità di conto – radicandosi nell’uso della sfera pubblica e privata. Tuttavia, come detto la gerarchia monetaria non è statica e lo status quo anche se lentamente può essere modificato. L’esempio principale a riprova di ciò è quello della sterlina britannica che valuta internazionale per eccellenza tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo riveste oggi un ruolo marginale essendo stata spodestata dalla vetta della piramide dal dollaro.

L’epoca della sterlina e il sorpasso del dollaro

Tra la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX secolo, l’impero britannico si estendeva su tutti e cinque i continenti: in America in Canada e Guyana, in Africa dal Cairo a Capo di Buona Speranza quasi senza soluzione di continuità, in Asia meridionale dove il perno era l’India, fino a giungere in Australia. Inoltre controllava una serie di isole e isolotti strategici, a cui si aggiungevano le importantissime Gibilterra, Suez e Singapore per il controllo del traffico marittimo e di conseguenza del commercio internazionale. La Gran Bretagna era di conseguenza la principale potenza commerciale, prima esportatrice di prodotti finiti e servizi e prima importatrice di materie prime e generi alimentari, assorbendo più del 30% delle esportazioni del resto del mondo nel 1860 e il 20% nel 18907. Data la centralità del mercato britannico, gli esportatori, soprattutto di materie prime, avevano convenienza a quotare i propri beni in sterline, rafforzando di conseguenza il ruolo della sterlina negli scambi internazionali. Si stima infatti che tra il 1860 e il 1914 circa il 60% del commercio mondiale era fatturato e regolato nella valuta britannica8. Inoltre, la Gran Bretagna era il principale Paese d’origine di investimenti esteri e aveva anche incoraggiato le sue amministrazioni d’oltremare ad utilizzare la sterlina nelle transazioni, favorendo anche l’apertura di filiali delle istituzioni finanziarie britanniche nelle sue colonie, incrementando perciò anche il suo ruolo nei mercati finanziari. Fino al 1914 la sterlina era indiscutibilmente la principale valuta internazionale.

Proprio nel periodo di massimo splendore britannico, gli Stati Uniti d’America, una ex colonia britannica, gettavano le basi della loro futura potenza. Dopo l’increscioso intermezzo della guerra civile, gli USA ripresero la solidificazione delle fondamenta della propria organizzazione statale e il cammino della crescita economica, che li avrebbe portati a superare la produzione inglese già entro la fine del XIX secolo. Nonostante alcuni encomiabili successi politici per la giovane nazione statunitense, come la vittoria del 1898 contro la Spagna per la questione cubana o l’importante ruolo di mediazione svolto tra Russia e Giappone nel 1905 che portò al trattato di Portsmouth, era ancora ben lontana dal vedersi riconoscere un ruolo preminente nella allora comunità internazionale gestita dalle potenze europee. In questo periodo, il dollaro era scarsamente utilizzato nel commercio internazionale e non poteva contare nemmeno su una banca centrale, visto che la Federal Reserve System (FED) fu istituita soltanto nel 1914, anche con l’obiettivo di trasformare New York in uno dei principali centri finanziari mondiali.

Fu la I guerra mondiale che, stravolgendo gli equilibri politico-economici europei (e di conseguenza globali), funse da acceleratore per la potenza statunitense inserendola d’obbligo nel concerto europeo che diveniva globale. Già durante gli anni della guerra, il dollaro vedeva indirettamente rafforzato il proprio status, con la decisione statunitense di mantenere la convertibilità del dollaro in oro anche dopo l’ingresso in guerra nel 1917, al contrario delle scelte europee della Germania che aveva sospeso la convertibilità del marco, della Francia che aveva imposto un embargo sull’oro nel 1915 e infine della Gran Bretagna che aveva limitato l’esportazione di oro nel 1917. Negli anni ’20 il dollaro vedeva incrementato la propria quota nel commercio internazionale e nei prestiti internazionali, lanciando la propria sfida alla sterlina con la decisione del presidente della FED di New York di incentivare i Paesi in difficoltà ad approvvigionarsi di prestiti di stabilizzazione sulla piazza di New York. Questa politica ebbe successo anche se veniva messa in luce la bassa qualità dei titoli emessi a New York rispetto a quelli di Londra. Tuttavia, negli anni tra le due guerre, nonostante l’indiscussa preminenza dell’economia statunitense, la difficoltà del dollaro di imporsi era dovuta anche alla scelta del governo statunitense di tornare alla “normalità”9, ossia a non lasciarsi trascinare nelle questioni europee, rinunciando di fatto alla guida politica della comunità internazionale. La sterlina invece, nonostante il terribile colpo inferto al suo prestigio con la decisione del settembre del 1931 di abbandonare il Gold Standard, rimaneva ancora la moneta dominante sebbene ciò in gran parte era dovuto alle relazioni politico-economiche con i propri Dominions10;. Con la II guerra mondiale avveniva l’inversione di ruoli tra Gran Bretagna e Stati Uniti, simboleggiata inizialmente dall’approvazione nel marzo del 1941 del Lend-Lease Act11 statunitense, dal Piano Marshall12 e soprattutto da Bretton Woods13. La maggior parte degli Stati agganciarono le loro valute al dollaro, che rimaneva l’unica valuta convertibile in oro in base al cambio di 35 dollari contro un’oncia del metallo prezioso. Di fatto il dollaro diveniva la principale valuta di riserva internazionale anche se, nonostante tutti i problemi politici ed economici della Gran Bretagna, la sterlina conservava ancora un peso di rilievo dovuto quasi esclusivamente agli storici legami con i suoi Dominions: negli anni ’50 l’area della sterlina racchiudeva 35 tra Paesi e colonie che ancoravano la propria valuta alla sterlina e detenevano principalmente riserve in sterline. L’area della sterlina incideva per circa la metà del commercio internazionale e, la sua valuta, la sterlina, incideva per oltre la metà delle riserve internazionali14. In effetti, sebbene la superpotenza statunitense avesse preso le redini della guida della comunità politico-economica internazionale, a differenza del primo dopoguerra, il dollaro non aveva ancora soppiantato del tutto la sterlina incontrando la maggiore difficoltà nel vincere l’inerzia con la quale la sterlina continuava ad essere accettata in gran parte del mondo. In effetti i Dominions continuavano ad incentrare le loro riserve sulle sterline soprattutto perché la Gran Bretagna costituiva il mercato principale di destinazione delle loro esportazioni e temevano che un brusco crollo del suo valore li avrebbe danneggiati. I successivi eventi, l’umiliante esito della crisi di Suez per la Gran Bretagna e la svalutazione della sterlina del 1967 che ebbe conseguenze principalmente per l’area della sterlina, segnarono la progressiva ascesa del dollaro sulla sterlina. Il passaggio dal predominio della sterlina a quello del dollaro è finora l’unico esempio di transizione tra due monete di dimensione globale che hanno segnato le rispettive epoche e conferma come la forza di una valuta dipenda da quella del suo Paese di emissione in un determinato periodo storico. Data l’importanza della crescita politico-economica della Cina e i progressi attesi per il prossimo futuro, non è da escludere il protagonismo dello yuan sulla scena internazionale, con il conseguente riassestamento degli equilibri monetari.

La strategia cinese di internazionalizzazione dello yuan

Nell’ultimo decennio, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria, la Cina non ha mai nascosto la sua insoddisfazione sulla centralità del dollaro nell’attuale sistema economico internazionale. Nel 2009, il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan, aveva proposto la creazione di una nuova moneta composta da un paniere di monete più ampio di quello dei Diritti Speciali di Prelievo (DSP) e gestita dal Fondo Monetario Internazionale. La proposta invero era una non troppo velata critica alla posizione del dollaro e una minima speranza di vedere inserito lo yuan tra le valute che compongono il paniere di riferimento. Alla conferenza del G-20 del marzo 2011 a Nianing, la Cina su quest’ultimo punto sembrava aver ottenuto il sostegno del presidente francese Sarkozy che aveva sollevato la questione se non fosse giunto il momento di allargare il paniere dei DSP anche alle valute delle economie emergenti e in particolare allo yuan riconoscendone esplicitamente il ruolo ricoperto nel sistema monetario internazionale15. Tuttavia, un ostacolo all’ingresso dello yuan nel paniere DSP è la sua mancanza di convertibilità come espresso dal Fondo Monetario Internazionale nel 201016. L’accettazione nel paniere sarebbe, ad ogni modo, più un motivo di prestigio per lo yuan che avere una reale importanza pratica dato lo scarso utilizzo dei DSP nel sistema economico internazionale; e difficilmente ne avranno in futuro perché come ricorda Obstfeld i DSP non sono sostenuti da banca centrale né da autorità fiscale17.

Data l’impossibilità di arrivare ad un qualsivoglia accordo su una “moneta globale”, l’alternativa più plausibile per la Cina per compensare l’attuale squilibrio a favore del dollaro è la crescita dell’importanza dello yuan attraverso un suo maggior uso a livello globale. La particolarità dell’internazionalizzazione dello yuan risiede nell’iniziativa governativa di guida programmatica che distingue i suoi primi passi da quelli compiuti dalle altre valute internazionali come sterlina, dollaro, yen, marco ed euro, il cui status internazionale è stato raggiunto naturalmente attraverso il peso politico e le dinamiche di mercato. Sebbene non possa essere individuata una data precisa in cui la Cina abbia deciso di procedere con l’internazionalizzazione dello yuan, una data significativa è la pubblicazione del report The Timing, Path and Strategies of RMB Internationalization, predisposto da un gruppo di lavoro della Banca del Popolo della Cina nel 200618. La strategia di internazionalizzazione dello yuan sta seguendo due percorsi principali: a) l’uso dello yuan nel commercio internazionale e b) l’uso dello yuan nella finanza.

Visto il peso che la Cina ricopre nel commercio internazionale è del tutto naturale che il principale percorso per l’internazionalizzazione dello yuan avvenga attraverso il suo potenziamento in questo settore. A tal fine a partire dal 2008, il governo cinese ha firmato una serie di swap agreement con otto Paesi, Argentina, Bielorussia, Hong Kong, Islanda, Indonesia, Malesia, Singapore e Corea del Sud, con i quali forniva alle banche centrali di questi Paesi yuan da utilizzare nel commercio con la Cina. Sebbene il fine dichiarato di questi swap agreement fosse quello di sopperire alla mancanza di liquidità di questi Paesi in caso di altre crisi finanziarie, essi si sono rivelati molto utile ad abituarli a utilizzare yuan nell’interscambio bilaterale con la Cina. Nell’ottobre 2013, anche la Banca Centrale Europea ha firmato uno swap agreement con la Cina pari a €45 miliardi.

Nell’aprile del 2009, con un progetto pilota Pechino ha ampliato le possibilità di ricorrere allo yuan per regolare il commercio internazionale consentendo a un numero limitato di aziende in cinque province cinesi, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen, Dongguan e Zhuhai, di regolare direttamente nella valuta cinese le esportazioni con Hong Kong, Macao e i membri ASEAN. Le aziende cinesi per partecipare a questo progetto dovevano ottenere l’autorizzazione delle autorità centrali dietro raccomandazione dei loro rispettivi governi provinciali. Al di fuori della Cina continentale venivano individuate determinate banche che potevano fornire i servizi necessari in yuan mentre alle aziende estere non venivano richiesti particolari requisiti oltre allo scopo di commerciare con le aziende autorizzate in Cina. Il progetto si è rivelato un successo cosicché nel giro di un anno è stato ampliato fino a comprendere 20 tra città e province cinesi19 e nessun limite per quanto riguarda le controparti estere. Da un progetto locale incentrato soprattutto sull’ASEAN diveniva un progetto globale. Le aziende autorizzate passavano da 365 a circa 67.000 che nel 2010 hanno originato un interscambio in yuan di 340 miliardi. Tramite una serie di accordi bilaterali20 la Cina è riuscita ad incrementare l’uso dello yuan nel suo interscambio commerciale totale che infatti passava dal 2,5% del 2010 al 9% del 201120 e al 12% del 201322, contribuendo a far divenire lo yuan l’ottava valuta più scambiata nel 201323.

Il processo di internazionalizzazione dello yuan non può fare affidamento soltanto sul canale del commercio internazionale in quanto i mercati richiedono anche che la valuta sia sostenuta da un mercato finanziario efficiente, vasto e libero da restrizioni. Ed in questo settore la Cina è più indietro anche se sono evidenti i recenti progressi. Nello sviluppare il proprio mercato finanziario, Pechino può far affidamento su Hong Kong per esperimentare innovazioni da introdurre nel mercato continentale. Sebbene la Hong Kong Monetary Authority, ossia quella che è di fatto la banca centrale di Hong Kong, sia indipendente e autonoma da Pechino, è tuttavia chiaro che ogni decisione che possa avere delle ricadute sullo yuan siano concordate anticipatamente con il governo di Pechino. Anche per i progetti nel settore della finanza osserviamo una prima fase in cui il loro campo di applicazione è ristretto per poi essere gradualmente ampliati a più soggetti. Il primo passo per consentire l’impiego dello yuan al di fuori della Cina continentale è stato il RMB Business Scheme del 2004 con il quale veniva autorizzato alle banche di Hong Kong di aprire conti correnti in yuan ad individui e imprese. Successivamente sono state adottate due misure per lo sviluppo del mercato offshore (CNH) e onshore (CNY) dello yuan. Nel 2007, sono state selezionate delle banche della Cina continentale che sono state autorizzate ad emettere titoli in yuan ad Hong Kong per raccogliere fondi. Questi titoli sono conosciuti con il nome Dim Sum (da un popolare stile di cucina di Hong Kong) e fino al 2010 solo le banche cinesi e di Hong Kong potevano emetterli. In seguito sono stati emessi anche da banche e multinazionali straniere che hanno attività economiche in Cina come ANZ, HSBC, Banco do Brasil e McDonald. La creazione di un mercato offshore24 in yuan al di fuori della Cina, a Singapore, Londra, e Taiwan, ha consentito alla China Construction Bank di emetterli per la prima volta all’estero, a Londra, nel 2012.

Per lo sviluppo del mercato onshore, invece, si è fatto ricorso all’emissione di titoli di debito in yuan denominati Panda bonds che sono emessi da enti non cinesi e venduti in Cina. Quando un’azienda straniera in Cina ha bisogno di yuan, può emettere un panda bond per prendere a prestito yuan per finanziare la propria attività in Cina. Gli yuan ottenuti in tal modo possono essere utilizzati solo in Cina. I primi panda bond sono stati emessi nell’ottobre 2005 dall’International Finance Corporation e dall’Asian Development Bank. L’obiettivo dell’emissione di questi titoli è trasformare Shanghai in un centro finanziario internazionale entro il 2020 ma i progressi sono stati piuttosto lenti in quanto all’inizio del 2011 vi sono state solo 5 emissioni per un totale di 5 miliardi di yuan25. Nel marzo 2014, l’emissione di un panda bond per 500 milioni di yuan26 da parte di Daimler, prima società non finanziaria ad emetterli, ha attirato nuovamente l’attenzione su questo mercato.

Il mercato finanziario cinese dovrà infine crescere in dimensione e sofisticazione per sostenere quello che sarebbe l’ultimo step del processo di internazionalizzazione, ossia l’accettazione dello yuan come valuta di riserva. L’ostacolo principale in questo caso è la mancanza di convertibilità dello yuan anche se alcune banche centrali (Nigeria, Zimbabwe per esempio al di fuori dell’Asia) stanno già costituendo riserve nella moneta cinese. In Europa, la banca centrale austriaca27 è stata l’unica a investire in yuan mentre le altre hanno dichiarato di aspettare la piena convertibilità prima di includerlo tra le proprie riserve. La banca centrale svizzera, nel diversificare le proprie riserve, ha incluso il won coreano e il dollaro singaporiano ma non lo yuan cinese. Le dichiarazioni di leader cinesi mostrano consapevolezza dei pericoli derivanti dalla realizzazione di una moneta di riserva troppo velocemente (necessità di gestire deficit di conto corrente, perdita del controllo di tasso di cambio, ecc.) tuttavia il processo è in moto e nei prossimi anni si assisterà all’ascesa dello yuan come sostiene Arvind Subramanian del Peterson Institute: “lo yuan diverrà la principale valuta di riserva perché i fondamentali si stanno muovendo fortemente a favore della Cina. L’esperienza storica della transizione sterlina – dollaro suggerisce che una volta che un Paese sia divenuto economicamente dominante in generale, l’influenza monetaria segue entro circa dieci anni.”28.

Conclusioni

Il sorpasso del dollaro sulla sterlina mostra chiaramente che il valore delle valute muta nel tempo ed è influenzato dal rapporto di forza che lo Stato che emette la moneta esercita in un determinato arco temporale nella comunità internazionale. Ciò è coerente non solo con un caso limite come il declino della sterlina inglese e l’ascesa del dollaro americano, ma anche con il posto conquistato nell’elite valutaria da yen e marco (e poi euro) che spinge molti analisti a puntare sulla prossima ascesa dello yuan. Sebbene l’ingresso dello yuan tra quelle che descriviamo come Patrician Currencies sia riconosciuto dalla maggior parte degli analisti, la possibilità invece che lo yuan minacci la posizione del dollaro è rigettata da molti soprattutto a causa del mercato finanziario cinese ancora troppo poco sviluppato per competere con quello statunitense. Tuttavia, chi ritiene la posizione conquistata dal dollaro inattaccabile sembra sottovalutare due aspetti: temporale e strategico. Tenendo conto dell’aspetto temporale, bisogna rilevare che anche il sorpasso del dollaro sulla sterlina ha richiesto un periodo alquanto lungo, soprattutto se si tiene presente che a fine Ottocento l’economia statunitense aveva già di gran lunga superato quella britannica. Inoltre, per il dollaro è stato relativamente più facile sovvertire l’inerzia con la quale la sterlina veniva accettata come principale moneta internazionale grazie a due eventi di rottura, le due guerre mondiali, che hanno sovvertito l’ordine gerarchico gettando nel baratro le economie europee e trasformando di colpo gli Stati Uniti nel principale centro produttivo, mercato consumistico e finanziario del globo, dato che tutti i Paesi, vincitori e vinti, erano indebitati con il governo americano e che il dollaro era l’unica moneta ad aver mantenuto, e addirittura incrementato, il proprio valore. Ipotizzando l’assenza di guerre su vasta scala, altri eventi di rottura potrebbero contribuire a modificare gli equilibri monetari attuali, come le crisi finanziarie. In effetti, la crisi della Lehman Brothers ha reso manifesta l’impossibilità del dollaro a continuare a svolgere imperterrito il ruolo di “unica” moneta internazionale. Tuttavia, soltanto l’assenza di valide alternative (l’euro è entrato in crisi proprio con la successiva crisi del debito) non ha causato una repentina diminuzione dell’uso del dollaro. In effetti, se il mercato cinese fosse stato più maturo non sarebbe stato inimmaginabile prevedere un deflusso di capitali da attività denominate in dollaro a yuan. Il secondo aspetto che a volte passa inosservato è quello strategico. L’internazionalizzazione dello yuan, infatti, non è il fine del governo cinese, ma il mezzo tramite il quale l’economia e la società cinesi possono raggiungere un benessere superiore. In base a questo punto di vista, le critiche rivolte agli esprimenti finanziari che Pechino fa tramite Hong Kong, definiti da molti “timidi”, non sembrano tener conto della consapevolezza delle autorità cinesi sui possibili danni che politiche di liberalizzazioni adottate senza un’adeguata preparazione dell’economia potrebbero causare al sistema economico cinese. La crisi asiatica del 1997-98 docet. Quindi, i policy makers cinesi sembrano molto più consapevoli di analisti occidentali sulle criticità della propria economia e sulle conseguenze nefaste di una apertura troppo rapida, senza aver preso le giuste precauzioni, sulla propria economia che potrebbe divenire facilmente bersaglio di speculazione internazionale. La gradualità delle misure adottate a sostegno dello sviluppo del mercato finanziario deve essere sempre inquadrato nel giusto contesto e quindi non assimilabile a lentezza visto che, sebbene la strada dello progresso economico sia ancora lunga, è innegabile la velocità della crescita esponenziale cinese se si considerano le basi della sua partenza. Infine, la presunta lentezza o indecisione di alcune scelte cinesi si scontrano di fatto con la strategia di internazionalizzazione dello yuan del governo cinese che può essere assimilato al solo caso in cui un governo sostiene programmaticamente l’internazionalizzazione della propria valuta.

Il potere economico si è spostato continuamente nel corso della storia. Prima della rivoluzione industriale, l’Asia Orientale era più ricca dell’Europa. Dal XVI secolo in poi il potere economico si è concentrato in Europa. Tuttavia, la rapida crescita degli Stati Uniti d’America dopo la guerra civile del 1865 li ha trasformati nella più grande economia ponendo le basi per la successiva supremazia del dollaro nel XX secolo. Ora osserviamo un nuovo trasferimento di potere verso l’Asia Orientale, di cui la Cina costituisce il pivot economico. Dunque vista la centralità economica della Cina una prima espansione dello yuan in questa regione sembrerebbe naturale anche se contrasti di natura politica tra gli Stati dell’area potrebbero rallentare il processo di trasformazione dello yuan nella valuta di riferimento dell’Asia Orientale. Tuttavia, la strategia di internazionalizzazione dello yuan mira proprio a rafforzare gradualmente la propria posizione rendendo il suo utilizzo conveniente nel mondo del commercio e del business in generale. Puntando quindi sulle dinamiche di mercato il governo cinese potrebbe aggirare le difficoltà politiche. L’affermazione dello yuan nella regione con maggiori prospettive di crescita comporterebbe una riduzione dell’uso del dollaro nella stessa scalfendo non superficialmente la sua posizione a livello globale. Infatti si creerebbero tre grandi aree con tre monete di riferimento, America, Europa e Asia Orientale rispettivamente per dollaro, euro e yuan. Di conseguenza, la sfida si sposterebbe su regioni “grigie” come Africa e Asia Centrale, dove la Cina da anni sta gradualmente consolidando la propria presenza, e in Medio Oriente, che da decenni sotto influenza americana potrebbe volgersi verso la Cina visto il diffuso sentimento antiamericano della regione. Indubbiamente le dinamiche geopolitiche in corso avranno il naturale riflesso sugli equilibri internazionali dai quali infine dipenderà anche il ruolo che lo yuan riuscirà a ritagliarsi tra le principali valute.

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