Lessi per caso jer l’altro, su altro blog, un simpatico intervento sulla tendenza che han taluni musicisti di proporre brani arcinoti (rock, perlopiù) rivisti in altra chiave; tendenza – vi si diceva – talvolta dettata dal commercial desiderio d’appagar i palati meno fini. Vi si citava Brad Mehldau e la di lui versione di Smells Like Teen Spirit.
Per quel che mi riguarda, soliti lettori, non vedo nulla di strano in tutto ciò.
Sarà che nel jazz è prassi attingere da repertorio comune (standard) o altrui.
Sarà che il jazz è questo: eterea materia in continuo divenire. Mai uguale a se stessa, pronta a ripartire dove altri avevan messo il punto. Pronta a rivedersi allo specchio con altri abiti.
Che male c’è, dunque, se taluni jazzisti non si limitan a My Funny Valentine preferendo accostarsi a brani d’altra tipologia?
Vi faccio tre adeguati esempi citando altrettanti album:
- Stolen Songs del buon Enzo Pietropaoli: rock/punk/pop riletto in versione jazz, con una grandissima Maria Pia De Vito alla voce.
- Rock Swings dell’inossidabile Paul Anka: album sopraffino, garantisco. Pure qui il materiale originale di genere rock/pop è riletto in chiave swing, ma mi preme far notare come il titolare del progetto sia quello stesso Paul Anka che a fine anni Cinquanta cantava Diana. Ohibò.
- Songs From The Last Century, opera di quel bravo giovine noto come George Michael: rock/pop/jazz proposto in veste swing/jazz da cantante pop.
Un personalissimo affetto mi lega a quest’ultimo album; affetto tanto forte che vi ripropongo la recensione che ne feci su carta stampata più di diec’anni fa. Ricordo che ricevetti il ciddì come regalo natalizio, a dicembre 1999, da Sorella.
Tutt’oggi lo considero uno tra i più begl’album della mia personalissima collezione.
Tutt’oggi non mi spiego perché, ascoltando Miss Sarajevo nella versione del buon George, pure la svagatissima Scribacchina si commuove.
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Gennaio 2000
Dice il saggio: “Ci vuole tempo per cambiare”. George Michael ha preso questo adagio come regola di vita, e senza fretta si è costruito quella che oggi è una solida immagine di interprete raffinato e compositore accattivante. La sua vecchia pelle, quella di bellone con sorriso a 36 denti dei tempi degli Wham!, è ormai un ricordo; come un ricordo sono i brani di – è il caso di dirlo – musica leggera che caratterizzavano il duo inglese. Da allora, George Michael ha fatto un percorso tutto in salita; dopo la relativamente facile incisione del primo album solista, Faith, ecco arrivare gli album più sofferti, quelli della maturità: Listen Without Predjudice e il penultimo Older, due tappe di una crescita che raggiunge il culmine in questo Songs From The Last Century.
In quest’album, il musicista inglese ha voluto raccogliere dieci brani presi dalla produzione dell’intero Novecento; interessante vedere come l’accostamento di brani estremamente diversi (sia stilisticamente sia cronologicamente) sia riuscito in maniera perfetta, e come il risultato dell’operazione sia gradevole anche all’orecchio ormai saturo di cover dell’ascoltatore di inizio millennio.
Già il primo singolo estratto dall’album, la cover di Roxanne dei Police, dà un’idea generale di quanta cura sia stata impiegata da George Michael e da Phil Ramone (coproduttore dell’opera). Le atmosfere delicatamente rarefatte creano una Roxanne nuova; una donna più sofisticata, forse più malinconica rispetto alla donna cantata dai Police. Lo stesso Sting, nel corso di un’intervista qualche settimana fa, ha espresso la propria ammirazione per la versione di George Michael.
Le atmosfere jazzy sono il leit-motiv di Songs From The Last Century; l’intero cd offre una panoramica del Novecento rivista in una veste sobria, dai ricami delicati. E i brani si snodano con eleganza, legati in un unica collana di perle dalla voce morbida e sensuale di George Michael: perle chiamate My Baby Just Cares For Me, Miss Sarajevo, I Remember You, You’ve Changed, Secret Love, Brother Can You Spare A Dime, Roxanne, The First Time Ever I Saw Your Face, Where Or When, Wild Is The Wind e un brano nascosto, It’s Alright With Me dell’incantevole Cole Porter. Un brano strumentale, che chiude senza violenza la carrellata sul Novecento.
E che chiede, a gran voce, di ripartire con l’ascolto dalla traccia numero uno.