George of the Dead

Creato il 10 novembre 2014 da Mcnab75

(Guest post di Lucia Patrizi)

Questo post nasce da una conversazione su Facebook con il padrone di casa di Plutonia. Ci chiedevamo se potesse ancora avere senso, oggi, parlare di Romero e dei suoi morti viventi, dopo tutti questi anni e dopo che ogni suo film di zombi è stato visto e rivisto fino a essere sezionato in tutte le sue parti e smembrato da centinaia di interpretazioni politiche e sociali.
Cosa c’è ancora da dire su Romero? La trilogia originale, quella iniziata nel 1968 con La Notte dei Morti Viventi e conclusa nel 1986 con Il Giorno degli Zombi, rimane un pezzo di storia del cinema che ha resistito alla prova del tempo. Da un punto di vista strettamente cinematografico, Romero ha ucciso l’horror gotico e ha creato, quasi dal nulla, lo zombie così come noi siamo abituati a percepirlo ancora adesso, nel 2014. Ogni ritornante uscito dalla tomba passa in maniera obbligata attraverso Romero e quel primo cimitero in cui un fratello e una sorella venivano aggrediti da quello che sembrava solo uno straccione.
“They’re coming to get you, Barbara”
E alla fine arrivavano davvero.


Ma sono cose ormai acquisite e assimilate da chiunque abbia visto più di una decina di film dell’orrore in vita sua.
Credo che però su Romero ci sia un problema di messa a fuoco. Siamo stati tutti presi dall’individuare nello zombie romeriano il proletariato, nell’identificare i morti viventi che asserragliavano il famoso centro commerciale di Dawn of the Dead con il consumismo, nel lanciarci in profonde invettive antimilitariste dopo ogni visione di Day of the Dead, che forse abbiamo dimenticato quanto il fulcro centrale di tutta l’opera romeriana (compresi gli ultimi tre film, per quanto meno riusciti) risiedesse in un concetto di base, semplice e brutale, ed esprimibile in poche parole: “Loro sono noi. Noi siamo loro e loro sono noi”.
Questa frase viene pronunciata nel remake del 1991 de La Notte dei Morti Viventi, diretto da Tom Savini e scritto dallo stesso Romero. Una sorta di didascalia finale, in caso non si fosse ben capito l’impianto dei tre film precedenti.
Sì, direte voi, anche questo concetto è, in fin dei conti, piuttosto banale e abusato. Ma non è mia intenzione parlare dell’idea in sé, quanto di come sia poi stata rifiutata, quasi si trattasse di materiale radioattivo, nella filmografia dedicata ai morti viventi del XXI secolo.

Un po’ di storia, che non guasta mai. Vi giuro che ve la faccio il più breve possibile: a partire dagli anni ’90, gli zombi non se li fila più nessuno. Se si escludono i direct to video, o i soliti Yuzna e O’Bannon che resistono impavidi, il genere è spacciato. Sembra strano dirlo ora, in un periodo in cui se getti una monetina dalla finestra, becchi uno zombi in testa, ma all’epoca i caracollanti e putrefatti morti viventi cannibali si stavano trasformando in una specie in via di estinzione.
Poi, quasi in contemporanea, escono due pellicole, entrambe nel 2002, che possono essere considerate come il punto di partenza della zombi mania degli ultimi anni. Si tratta di Resident Evil (Paul W. Anderson) e 28 Giorni Dopo (Danny Boyle).

Adesso non è il caso di mettersi a discutere se che quelli del film Boyle siano o meno tecnicamente zombi o infetti. In realtà, 28 Giorni Dopo è un film di zombie in tutto e per tutto, replicando in maniera quasi pedissequa ogni stereotipo diventano celebre negli anni ’70 e ’80 e poi caduto nel dimenticatoio. Anzi, sembra quasi un bignami di situazioni proposte dallo stesso Romero molto tempo prima: abbiamo la città deserta, l’assedio, i militari cattivi, persino il supermercato. C’è tutto.
Manca solo un piccolo dettaglio: i rabbiosi e ferocissimi antagonisti di 28 Giorno Dopo sono, appunto, solo antagonisti.
L’identità tra la massa informe di morti viventi e sopravvissuti, così ben delineata da Romero nel corso di tre film fondamentali, è del tutto cancellata, grazie anche alla trasformazione fisica del mostro in questione: più forte, più veloce, più spaventoso e più adatto a un linguaggio cinematografico che nel frattempo si è fatto sempre più rapido. Ma anche più distante, più altro da noi. Minaccia esterna, abbattuta la quale si può ripristinare un determinato status quo. Più facile da gestire per noi spettatori, che possiamo sederci e fare il tifo. Non si tratta più quindi di “noi siamo loro”, ma di “noi contro di loro”.

E pensare che anche un prodotto considerato “minore” come The Return of the Living Dead (1985) picchiava forte su questo tasto. Se qualcuno ricorda lo splendido dialogo tra i protagonisti e il torso umano steso sul lettino, che continua a ripetere quanto faccia male e sia dolorosa la sua condizione. E il film di O’Bannon era una commedia.
Il paradosso vuole che sia stata proprio un’altra commedia a recepire appieno la lezione di Romero. Parliamo ovviamente di Shaun of the Dead, del 2004, stesso anno di uscita di Dawn of the Dead, remake firmato da Zack Snyder del secondo capitolo della trilogia originale dei morti viventi.
Snyder, molto bravo a riciclare le idee altrui, mutua da Danny Boyle non solo lo zombie centometrista, ma anche il concetto di alterità assoluta e irriducibile del morto vivente rispetto al sopravvissuto.
Nel criticare il remake di Snyder, molti si sono appunto concentrati proprio sul fattore puramente estetico dello zombie che, invece di incedere barcollante e lento, corre come un matto e si comporta come un cane idrofobo. Un mezzo come un altro per aggiornare un mito a un’epoca in cui la paura passa per sbalzi di volume e apparizioni improvvise. Non è importante che lo zombi corra o cammini. È importante che Snyder, proprio con un film che si richiama in modo diretto all’opera di Romero, ne abbia definitivamente tradito lo spirito originario.
Aggiungerei in maniera voluta.
Perché individuare e distruggere il nemico è un atteggiamento che richiede molto meno sforzo (e molta meno sensibilità) rispetto a quello di specchiarsi nel nemico e non trovarlo poi così diverso da noi.
In un momento storico in cui è l’isolamento a farla da padrone, chiunque non ci somigli è un alieno.

La storia cinematografica dei morti viventi, a partire dal 2004, si spacca quindi in due filoni destinati a non incontrarsi mai.
Nel primo, lo zombi diventa sempre più massa indifferenziata, sempre più estraneo all’umanità che lo ha generato, sempre più mostro.
Nel secondo, in cui torna a rifugiarsi lo stesso Romero con La Terra dei Morti Viventi (2005), lo zombie si evolve fino a essere di nuovo accolto (o assimilato?) dalla società, con tutti i rischi e disastri vari che ciò comporta.
Più classici e “di cassetta” i film appartenenti al primo filone, più originali, personali e di nicchia quelli del secondo.
Qualche esempio sparso: World War Z (Marc Forster, 2013), dove gli zombi non hanno più nemmeno una vera e propria identità individuale, ma vengono trattati alla stregua di un’invasione di cavallette, o di una qualsiasi catastrofe naturale; la saga spagnola di Rec (anche qui, lasciamo perdere la distinzione tra zombi e infetto perché è questione di poco conto), in cui i nostri mostri sono niente più che una piaga da estirpare a ogni costo; e infine la serie televisiva che ha dato in pasto il morto vivente al grande pubblico, The Walking Dead.

E qui la faccenda è più subdola e sfumata. Il telefilm pullula di richiami a Romero, è pieno di citazioni, dirette e indirette. All’inizio dell’ultima stagione, in un momento di comicità involontaria che resterà negli annali, fanno anche pronunciare a un personaggio la stessa frase pronunciata da Barbara nel ’91. Noi siamo loro, loro sono noi.

Stronzate.

The Walking Dead parla di un gruppo di superstiti fortemente identitario che lotta contro una minaccia del tutto esterna. Se i primissimi episodi potevano far presagire un ritorno all’uso dello zombie come specchio dell’umanità, lo sviluppo della serie è andato nella direzione opposta.
Non è giudizio qualitativo sulle opere menzionate, il mio, ma solo l’individuazione di una tendenza che ha radicalmente modificato la percezione del morto vivente al cinema. Una tendenza che con Romero ha poco o nulla a che vedere.
E si tratta di una tendenza maggioritaria, che ha un suo preciso senso, politico e sociale. Al di là dello zombie proletario, al di là della critica al capitalismo, al di là dei militari cattivi, il grande e universale messaggio politico di Romero è sempre stato quello di individuare noi stessi in ciò che più temiamo.
Ma è un percorso a ostacoli difficile e doloroso. Si fa prima ad appiccare l’etichetta di mostro, a non considerare neanche parte del consesso umano tutte quelle categorie che a volte ci rifiutiamo anche solo di vedere.
In questo senso, sono molto più romeriani una serie come In The Flesh o un film come Warm Bodies, rispetto a centinaia di episodi di The Walking Dead.

E allora sì, ha ancora senso nel 2014 parlare di Romero, perché la sua filmografia può anche essere datata da molti punti di vista, ma quel “Noi siamo loro e loro sono noi” ha ancora il potere di ferirci e di offenderci.
“Sono morti. Sono tutti così sporchi” (La notte dei morti viventi, 1968)
“Noi siamo loro e loro sono noi” (La notte dei morti viventi, 1991)
È uno sfregio in faccia all’umanità. Ma è anche, forse, l’unico modo che ha per accettare se stessa.

Lucia Patrizi
@LuciaPatrizi su Twitter
Il Giorno degli Zombie blog

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Quello che avete appena letto è un sontuoso guest post di Lucia Patrizi, grande esperta di cinema horror e blogger di nota e meritata fama.
Quando le ho chiesto: “Secondo te c’è ancora qualcosa di valido da dire su Romero?”, non mi aspettavo tanta grazia. E invece ecco una lunga riflessione che condivido in toto, e che dà spunti importanti sull’interpretazione di un genere, quello della zombie apocalypse, che di anno in anno viene sempre più banalizzato e snaturato. Se si eccettuano certe riuscite commedie e capolavori come il libro World War Z di Max Brooks (sul film preferisco tacere), occorre ammettere di essere davanti a un’involuzione della figura dello zombie.
Ed ecco che Lucia ci ricorda, grazie a questo articolo, cos’era una volta (dal ’68 in poi) e cosa – forse – non è più.

Colgo l’occasione per consigliarvi di leggere My Little Moray Eel, il romanzo di Lucia, che riprende un suo modo di vedere la poetica della narrativa fantastica. Senza gli zombie, ma con qualcosa di meglio…

La Fossa delle Marianne.
Il luogo più buio e silenzioso della Terra.
Un ambiente ostile.
Ostile come le misteriose intelligenze che lo abitano.
Fin da bambina, Sara può comunicare con gli esseri che popolano l’oceano.
Può nuotare fra loro, immergersi senza paura.
Ma adesso qualcosa sta emergendo da quelle profondità abissali, qualcosa in grado di minacciare la sopravvivenza dell’uomo.
E Sara dovrà scegliere da che parte stare. E a quale mondo appartenere.


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