A vent’anni dalla caduta dell’Unione Sovietica, liberatosi dai governi autoritari, il Caucaso meridionale si presenta come un’area in pieno boom economico, i cui paesi stanno esplicando, chi più chi meno, le loro potenzialità in campo economico e di miglioramento delle condizioni di vita, un tempo non eccezionali, della loro popolazione.
Ad esclusione dell’Armenia, orientata verso l’Unione Doganale a guida russa, la propensione di Georgia ed Azerbaigian verso un’apertura all’Occidente ed il loro sempre più stretto legame con l’Unione Europea sta favorendo la crescita delle loro economie attraendo investimenti esteri e favorendo collaborazioni soprattutto nel settore dell’energia, basti pensare all’enorme gasdotto che porterà il gas naturale estratto nelle acque del Caspio azerbaigiano fino in Italia e da lì in tutto il continente europeo.
Proprio la Georgia è uno di quei paesi in cui, dopo il periodo sovietico, le aspirazioni atlantiche e la voglia di Europa sono più forti.
A dodici anni dall’indipendenza, con uno stato corrotto e sull’orlo del fallimento, con sospetti di frodi elettorali da parte del presidente Eduard Shevardnadze, con una povertà e un malcontento dilaganti, in seguito alle massicce proteste di piazza che portarono alle dimissioni la gran parte dei vertici dello Stato in quella che fu la “Rivoluzione delle Rose”, il paese venne guidato per pochi mesi da Nino Burjanadze per poi passare per quasi un decennio all’amministrazione del giovane Mikheil Saakashvili, con il quale si ebbe la svolta che ha portato oggi la Georgia a guardare verso ovest, percorso portato avanti dal suo successore, benché avversario, Giorgi Margvelashvili, vittorioso nel novembre 2013 con il movimento “Sogno Georgiano”.
Ora Tbilisi ha davanti a sé una sfida delle più difficili, cioè creare quell’apparato infrastrutturale necessario per attrarre gli investimenti stranieri ed entrare finalmente in quel meccanismo di sviluppo che, per il momento, è solo in fase embrionale; nonostante le alte percentuali di crescita del Pil (6.3% nel 2010, 7,2% nel 2011 e 6,2% nel 2012 [1]) si è infatti davanti ad un paese che ha vissuto anni di stagnazione economica, dove non è ancora presente una base solida per poter sostenere un’apparato produttivo su grande scala, ma le premesse sembrano buone.
I settori su cui ha deciso di puntare il governo georgiano sono infatti quelli necessari per mettere le fondamenta di una futura espansione economica: energia, infrastrutture e trasporti.
La Georgia dispone sicuramente di riserve petrolifere, soprattutto nelle province orientali, ma è l’idroelettrico quello che interessa a Tbilisi, ancora poco sviluppato e che offre enormi opportunità di guadagno ma, soprattutto, garantisce la disponibilità di energia per futuri impianti produttivi (il settore idroelettrico georgiano, se sfruttato al meglio, avrebbe potenzialmente una capacità di 4.5GW [1]); nel paese non esistono infatti grandi centrali, la catena montuosa del Caucaso rende però disponibile una grande quantità d’acqua che potrebbe essere utilizzata a questo scopo (26.000 fiumi di cui 300 adatti per l’installazione di centrali [1]) se si disponesse di impianti adeguati.
La costruzione di vie di comunicazione allineate con gli standard attuali è un’altra sfida che Tbilisi deve necessariamente vincere e che è ormai diventata una priorità per tutti i paesi ex sovietici: infrastrutture funzionali sono infatti fondamentali per favorire il trasporto di grandi quantità di merci, sia su gomma che su rotaia, ma anche per favorire un potenziale sviluppo del settore turistico; la direttrice fondamentale è infatti la Tbilisi-Batumi, l’arteria che congiunge la capitale con il più grande porto del paese, affacciato sul Mar Nero e principale punto di congiunzione e scambio con l’Europa, centro nevralgico di una città in rapida crescita ed uno dei pochi sbocchi al mare di cui ancora dispone la nazione dopo la perdita dell’Abkhazia.
Le dispute riguardanti la sovranità su alcune regioni sono infatti tra le più grandi piaghe che affliggono l’intera area del Caucaso meridionale: dal conflitto armeno-azerbaigiano per il controllo dell’altopiano del Nagorno-Karabakh, regione strategica dell’Azerbaigian con una popolazione a maggioranza armena, e delle sette province azere circostanti, da vent’anni occupate dalle forze armate di Erevan alla guerra combattuta dalla Georgia per il controllo di Abkhazia ed Ossezia del Sud, repubbliche autoproclamatesi indipendenti ed appoggiate politicamente e militarmente da Mosca.
Queste due entità de facto indipendenti, riconosciute solo dalla Russia e da un manipolo di stati che si possono contare sulle dita di una mano (Nicaragua, Venezuela, Nauru, Vanuatu e Tuvalu) a cui si aggiunge il loro riconoscimento reciproco e quello della Transnistria, a sua volta considerata come un paese solo da Abkazia ed Ossezia de Sud, sono reclamate come proprie da Tbilisi, la cui posizione è appoggiata da tutti gli stati membri dell’Ue e dall’Alleanza Atlantica, oltre che dalle stesse Nazioni Unite.
Il 7 agosto 2008, nel pieno delle trattative e dei tentativi georgiani di entrare a far parte proprio della Nato, pensando di sfruttare questa inedita amicizia e vicinanza a Washington, l’allora presidente Mikheil Saakashvili, con l’appoggio di milizie leali al governo georgiano situate in Ossezia del Sud ed Abkhazia, decise di muovere guerra con le proprie armate (20mila uomini[2]) contro le due repubbliche, presidiate dalle forze di Mosca, nel tentativo di riprenderne il controllo, contando sulla protezione dell’Occidente; alla dura reazione di Dmitry Medvedev, l’allora presidente della Federazione Russa, che inviò 20mila militari [2] invadendo il paese, non corrispose però una risposta della Nato, che lasciò la Georgia in pasto alle forze di Mosca.
Con l’appoggio della Flotta del Mar Nero e dell’aeronautica, l’esercito russo penetrò in territorio georgiano fino a pochi chilometri da Tbilisi, le cui armate dovetterro arretrare ed attestarsi su posizioni difensive mentre la capitale veniva bombardata.
Dopo soli cinque giorni Saakashvili, in seguito alla sconfitta subita ed all’interruzione dell’avanzata delle forze russe, tornate all’interno dei confini osseti ed abcasi, firmò il piano proposto dall’Unione Eurpea che, in sei punti, conteneva le condizioni per la pace e che, di fatto, sancì l’espulsione di tutti i cittadini georgiani dalle due repubbliche, la smilitarizzazione di tutti i territori circostanti e l’occupazione da parte delle forze di Mosca di Abkhzia ed Ossezia del Sud, dove vennero installate basi militari permanenti.
Questa situazione di tensione continua con un paese come la Russia è sicuramente una delle cause che rendono scettici la Comunità europea e la Nato, ora impegnati anche sul fronte ucraino, ad accettare tra loro uno stato come la Georgia che, nella situazione attuale, potrebbe diventare un pericoloso motivo di scontro.
Non bastano infatti infrastrutture moderne e grande disponibilità di energia per rendere un paese adeguato ad investimenti e partnership durature: è necessaria anche una situazione pacifica e stabile in tutta l’area.
[1]http://www.ambtbilisi.esteri.it/NR/rdonlyres/0645F554-64CB-4132-82E3-B1C21C97E74D/30039/GeorgiaSettoreidroelettrico_13gennaio2014_1.pdf
[2]http://en.wikipedia.org/wiki/Russo-Georgian_war