Geppy Gleijeses: l’Importanza d’Interpretare Ernesto

Creato il 13 febbraio 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine

"- Spero che tu ti sia comportato bene -

- Sto molto bene zia Augusta -

- Non è esattamente la stessa cosa... -"

Algernon Moncrieff, protagonista de L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, risponde così alla zia Lady Bracknell e a noi spettatori, che ci presentiamo nel suo salotto. I costumi curati da Adele Bargilli sono impeccabili e nell'aria si respira uno strano odore:

"- Hai preso una brutta piega Algy: narghilè, assenzio... e dici sempre sciocchezze! -

- Come tutti! -" risponde ancora una volta il ragazzo.

Non si può negare che questo personaggio abbia sempre una risposta pronta, e alla quale non si può controbattere. In generale, tutti i personaggi sembrano più recitare delle sentenze che essere predisposti al dialogo e mantengono spesso posture rigidamente frontali, nemmeno rivolte ai loro interlocutori (per fortuna, visti i leggeri problemi di "audio" per alcune delle voci recitanti). Infrangono poi con forza la quarta parete, quando ammiccano al pubblico con le soluzioni brillanti e a tratti decisamente divertenti ideate dal regista Geppy Gleijeses.

Il risultato è quindi una successione di frasi ad effetto che non ho potuto fare a meno di appuntare, nella penombra della platea, come ad esempio: "Non viaggio mai senza il mio diario; mi piace avere qualcosa di forte da leggere in treno".

E l'abitudine di appuntare maniacalmente tutto accomuna le giovani Gwendolen Fairfax (Valeria Contadino) e Cecily Cardew (Giordana Morandini). A ben guardare, però, le loro vite non sono affatto "forti" quanto piuttosto costantemente frenate da genitori o tutori, quando non dai loro stessi caratteri. In effetti, anche quando il condizionamento esterno viene saltuariamente meno, si fa strada un freno di altra natura, generato da ragionamenti spinti all'estremo del paradosso.

La questione ruota attorno alla sensualità del nome Ernest, la cui pronuncia (perlomeno nel corretto corrispettivo anglosassone, riprodotto con successo, per la verità, solo da alcuni dei personaggi) caricherebbe di fascino riflesso colui che porta tale nome. Da qui, una serie di esilaranti equivoci, incastrati con tempismo mai lento dal genio di Wilde, portano i protagonisti Jack Worthing (impersonato dal regista) e Algernon, a voler assumere appunto il nome di Ernest. Un semplice nome quindi, dapprima infiamma e poi frena del tutto le due ragazze, improvvisamente non più interessate ai rispettivi corteggiatori, solo perché colpevoli di rispondere ad altri nomi. Questa ritrosia, per così dire "burocratica", si contrappone all'altrimenti piacevole energia di Gwendolen e Cecily; da sole in scena colmano l'intero palco con la loro giovane isteria.

D'effetto anche la contrapposizione donne/uomini, quando nel secondo atto, le ragazze fingono di essere offese, entrando in casa, sperando di essere seguite - senza successo - dai due uomini indifferenti. Indifferenti, in realtà, niente affatto, visto che fremono dalla voglia di sposarle; eppure stanno seduti, fermi, in giardino e canticchiano un motivetto sciocco. Il punto è forse questo: un problema di comunicazione e di attese disattese.

Quando la diatriba sul nome arriva alle sue estreme conseguenze, i personaggi maschili vorrebbero agire: si inginocchiano in avventate proposte di matrimonio. Sono addirittura disposti a farsi ribattezzare e non come vago progetto, bensì prendendo di corsa appuntamento con il parroco, ma le donne fanno impantanare i processi con le loro pretese definitorie. I nomi, le precisazioni, intervengono ancora a sottolineare e guastare tutto. Ahimè, di tale vizio si fanno carico non a caso i personaggi femminili, esperti in materia di complicazioni.

Si rimane un po' stupiti di fronte all'innamoramento repentino di Algernon. D'altronde, nel primo atto ci aveva abituati alla sua devozione per l'edonismo: un Gabriele d'Annunzio britannico che vanta in salotto un imponente Martirio di San Sebastiano di Guido Reni. Sembra quasi brillare, torso nudo, a simboleggiare l'estetica e il suo culto, di cui Algernon si fa sostenitore.


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