La pratica è attestata dai commentatori classici anche per la Sardegna e prevedeva la morte rituale degli anziani che avessero superato il settantesimo anno di vita da effettuarsi ad opera dei propri figli. A rendere tanto spregevole il rituale è la decontestualizzazione, e seppure mai giustificabile, l’assassinio rituale ha delle spiegazioni fortemente connesse a quel ciclo infinito che vede come protagonista ed antagonista rispettivamente la vita e la morte.
La pratica prevedeva che il padre settantenne venisse accompagnato dal figlio, probabilmente il maggiore che ne avrebbe poi fatto le veci, presso un dirupo o un baratro a seconda di ciò che la morfologia del territorio offriva. E’ probabile che l’anziano non presentasse lamentele, i rituali hanno il pregio e il difetto di essere pienamente prevedibili.
Raggiunto il luogo l’anziano veniva bastonato e gettato dal figlio contro il dirupo trovando ovviamente morte certa. A sorprendere più di altri particolari il ghigno e le disumane risa stridule di cui si riempiva, sempre secondo quanto riportato dai commentatori classici, il volto dei giovani assassini e delle vittime. Un riso forzato che alcuni chiameranno poi Riso Sardonico.
A parlare di questa pratica per altro diffusa in buona parte del territorio mediterraneo fra i primi ci pensa Timeo di Turomenio, che riporta l’uso anche per la realtà isolana. Le uccisioni secondo quanto riportato da Timeo erano portate a termine in onore di Kronos. Demone ed Eliano da Palestrina si spingono oltre e ricordano per l’isola non solamente l’usanza del Geronticidio, ma parlano anche di quel forzato riso che dipingeva le facce degli assassini rituali e vittime, ricordando come fosse provocato dall’uso di un erba particolarmente diffusa su tutto il territorio sardo. La spiegazione all’utilizzo di quest’erba risulta semplice. Avvicinarsi alla morte impauriti e vili sarebbe stata cosa turpe.
Quello che davvero sorprende è quanto a lungo la memoria di un rito tanto antico si sia mantenuta. Ancora oggi a Gairo è comune sentire la frase “is beccius a sa babaiecca”, i vecchi alla babaiecca e in quest’ultima si dovrebbe ritrovare l’etimo babai, padre. Babaiecca è effettivamente una roccia a picco distante più o meno un chilometro dalla vecchia Gairo e tradizionalmente si ritiene che quella fosse il luogo in cui anticamente il rituale si svolgeva. La gola profonda otto metri e ricerche recenti paiono attestare il fatto.
Anche ad Ovodda è stato possibile riscontrare resti tradizionali di questo costume. Si racconta che gli anziani che avessero superato i settant’anni venissero precipitati dalla rupe detta localmente su nodu de lopene. Identico discorso potrebbe farsi per Cossoine a Sassari dove è presente una pietra nota con il nome di Su Mammuscone. La tradizione ancora viva nella memoria vuole che un tempo dal dirupo venissero lanciati gli anziani che avessero superato i settant’anni di vita o le mogli infedeli. L’importanza del sito è comunque rivelata dal suo stesso nome, che ricorda molto da vicino quella di una divinità sotterranea.
Il rituale del geronticidio sebbene non facilmente collocabile storicamente, si adatta molto bene a quella che doveva essere la società sarda durante il neolitico, in ambiente prenuragico. Durante questo periodo l’economia era prettamente rurale e di raccolta e la società principalmente matriarcale.
Il rituale agisce nel senso di rigenerazione della vita e potrebbe riconnettersi facilmente con un altro rituale: l’antropofagia del defunto. Consumarne le carni significava appunto identificarsi con il trapassato, assumerne caratteri, capacità e doti. Il rituale doveva essere sentito come un obbligo morale, visto che se l’anziano fosse morto di morte naturale, tutte le qualità che lo avevano caratterizzato in vita, sarebbero andate perdute.
Se la morte fosse avvenuta in forma violenta, l’uccisore ne avrebbe assorbito le qualità le quali sarebbero state garanzia della sopravvivenza della società. Ad essere uccisi infatti, come lo stesso Lilliu afferma, non dovevano essere tutti gli anziani che superavano i settanta, ma solamente quelli particolarmente importanti a livello societario, capi tribù o saggi, le cui qualità fisiche e morali non potevano essere perdute.
Qualcosa di molto simile è descritto da Freazer ne Il ramo d’oro, quando racconta dell’uccisione del re divino. La pratica è attestata per la zona medio orientale, africana ed eropea centrale e settentrionale prevedeva l’uccisione rituale del sacerdote ormai anziano da parte di chi avrebbe preso poi il suo posto.
Totalmente da scartare invece le teorie che vogliono giustificare il rituale tirando in ballo la penuria alimentare della terra sarda. Impossibile dare credito a questa teoria in quanto da quel che risulta leggendo i commentatori classici, la Sardegna era dipinta come una terra ricca, florida e scarsamente abitata.
La Leggenda
Questa storia, invece, dicono fosse vera. Dicevano che quando gli uomini raggiungevano i settant’anni di vita, o perché fossero poltroni oppure perché non avevano niente da fare, gli stessi figli se li caricavano a spalla e li portavano a gettarli via. Li buttavano nel Monte Maradu. Una volta, un ragazzo caricò il padre sulle spalle e partì. Il padre era disperato, perché il figlio lo stava trascinando per gettarlo via. Ad un certo punto, mentre salivano sul Monte Maradu, gli disse: “Su, figlio mio, riposati qui, ora, perché anch’io ho fatto riposare mio padre quando sono andato a gettarlo via”. E il figlio esclamò allora: “Avete riposato davvero qui?” “Si, ho riposato qui. Ora anche tu riposa un pochino. E poi continuerai ad andare avanti”. Sentito ciò, riprese il padre e lo riportò a casa, e non lo gettò più via. Perché pensò che anche suo figlio avrebbe gettato via lui, una volta diventato vecchio. Se lo tramandavano di padre in figlio.
Fonte Solinas Bachisio, Il bosco: fiabe e leggende di Sardegna: scenari e simbologie: diavoli e spiriti, maghi e fate, streghe e briganti. Prefazione di Mario Atzori. Sassari, Edes, 2006.
Claudia Zedda
Scritto per Oopart.it