La speranza di alcuni che scrivono poesia, come quella di Lucianna Argentino, credo, è rivolta a una certa compostezza formale, per quanto amena o irregolare, che salvi le cose dal nulla, dal tempo, da una realtà che le significa in modo deficitario o offensivo. Il poeta mette in scena un secondo mondo “un’immensa approssimazione dell’inespresso” (A.M.Ortese) che culmina nei toni di una rivelazione. Ancora di più per certi poeti, questa salvazione, si palesa nella visione di un assente, nello strazio o nell’apice di una vicenda che Lucianna Argentino sa di poter esprimere nella sua rarefazione, nella sua dissolvenza solo da quel fattore estremo che è la poesia annidata come una spora tra le pieghe viventi di una ferita comune a molte donne. Valentina Cavalli aveva 29 anni, era cresciuta a Casale Monferrato e, finito il liceo aveva scelto Milano. Si era iscritta all’università. Fino a una sera di sei anni prima del suicidio, sera in cui due ragazzi di Milano l’avevano stuprata. Valentina aveva denunciato, aveva avuto coraggio ma anche molta paura. A passo lento, per sei anni, Valentina retrocede inghiottita dall’irreparabilità del danno subito. La poesia non ha compito se non quello di illividire le staticità su cui gli uomini costruiscono l’apparenza, non ne ha, se non quello di ricordare ostinatamente a ciascuno una parentela troppo spesso misconosciuta con tutto il creato che non è pietà. Lucianna con la captazione funambolica che allinea il pensiero sulla doppia frequenza dell’espressione e della dissolvenza degli accaduti, accompagna Valentina nella dichiarazione inavvertita di non poter stare, di dover andare. Lo fa con un canto dolcissimo e riparatore, con la parola umile che è richiesta dalla manifestazione della poesia in quanto cosa di tutti gli uomini, anche di quelli che vivono sentendola perduta o non avendola mai incontrata.
dalla raccolta inedita La vita in dissolvenza di Lucianna Argentino
Trovarla nella caduta perpendicolare
del sangue la parola giusta
che mi raschi dalla pelle tutto il male,
che mi scavi le ossa e mi faccia cava
per galleggiare almeno in quest’aria
che non riesco più a respirare.
Trovarla negli otto minuti di travaglio
della luce ora che sto come il cielo
dismesso dalle rondini,
la verità dimenticata dall’ombra,
le lenzuola sui davanzali, al mattino,
prostrate in un rigurgito di buio.
Trovarla la parola giusta e difficile
ora che il mondo è tutto e solo visibile,
la parola che è segreto e mistero di te ed io,
quella che dice l’amore
quella che m’è rimasta dentro muta
perché non ho più un te
e nemmeno un io e sono metallo gelido
campana che suona
tamburo che rimbomba.
(…)
Un velo s’è alzato, un velo s’è steso
su tutte le cose
chiare sotto la radente evidenza del male
s’oscurano dietro le ciglia
si ritraggono nella bocca
estirpano le parole,
rovesciano la grammatica e stanno
lontane in una distanza di deserti.
Sei anni a fissare un silenzio ostile, avaro.
Sei anni sepolta viva
tessendo l’unica veste possibile
per i miei fianchi sguarniti
se poco è ciò che posso indossare
ora che mi hanno disfatto il nome
fatto un nome sbagliato che non so pronunciare
e non mi pronuncia e sto
gravida di domande inadeguate.
Sei anni saccheggiata a poco a poco
ogni secondo una formica
a portarsi via un pezzetto di me
così ho dimenticato che fui bambina un tempo
e dei bambini avevo il coraggio
il vantaggio di non sapere com’è il mondo
e lo ignoro ancora ora
resa incapace di imparare, di sognare
non sento altro che il ritrarsi
della voce dentro il vuoto
scavato vuoto in me:
a insidia di polsi e di caviglie
a insidia di memoria.
Incredula è poco a dirsi
che il cuore s’era preso tutto lo spazio
e le ossa scricchiolavano
era Adamo che si riprendeva la sua costola
e mi lasciava come piccola cosa increata.
Incredula sì, ma nelle narici mi saliva l’odore
del sudore e del fiato, l’odore acre
di sterpaglie bruciate sulle carni in fiamme
e mi intorpidiva, narcosi di vita livida
e senza più metafore a farne bello e alto il senso.