Intervista a Francesco Gesualdi su Euro, Europa, debito pubblico e le alternative all’attuale sistema
Corretta Informazione ha incontrato Francesco Gesualdi, in occasione dell’uscita del suo libro “Le catene del debito“. Una discussione incentrata sul problema del debito, pubblico e privato, che sta strangolando l’Europa, i problemi relativi all’Euro e le alternative a questa Unione Europea. Buona lettura.
Ci vuole parlare del Centro Nuovo Modello di Sviluppo?
Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo è un centro di documentazione nato nel 1985 a Vecchiano, vicino Pisa. Nel corso del tempo abbiamo affrontato vari temi. Inizialmente siamo partiti dagli squilibri nord/sud, che ci ha portato a capire le grandi responsabilità che hanno le imprese, sviluppando il tema del consumo critico. Poi siamo andati avanti lungo questa strada, occupandoci del tema del debito di cui erano vittime i paesi del sud del mondo e, oggi, ci stiamo rendendo conto che i processi di impoverimento in casa nostra, oltre a essere provocati dai processi di globalizzazione, sono provocati anche dall’attuale gestione del debito pubblico, tutta orientata soltanto a soddisfare le richieste dei creditori. Siamo, dunque, una realtà che si occupa di vari temi, ma tutti a carattere sociale, che chiede ai cittadini di darsi da fare, di reagire per cercare di superare l’attuale situazione.
Lei è stato allievo di Don Milani. Ce ne vuole parlare? Secondo lei cosa ci ha lasciato e cosa ha da insegnare per il futuro?
Io sono stato a Barbiana per tutta la mia giovinezza, dai 7 ai 18 anni fino a quando lui non è morto, è stata l’unica scuola che ho frequentato nel corso della mia vita. Cosa ci ha lasciato? Secondo me ci ha lasciato dei messaggi che sono intramontabili, oltre alla denuncia fatta rispetto alla scuola pubblica, alla scuola classista, alla scuola che non è organizzata secondo lo spirito della Costituzione che dovrebbe formare dei cittadini sovrani, ma come tribunale per continuare quella selezione che già avviene all’interno della società, per cui i ricchi devono continuare a essere mandati avanti mentre i poveri devono essere respinti e, in qualche modo, mantenuti ignoranti. Ma, a parte tutto questo contenuto ne “Lettera a una professoressa”, mi pare che vi siano altri messaggi, che hanno un valore dal mio punto di vista intramontabile, che si trovano nella sua autodifesa per il processo che ha subito per apologia di reato e che si è anche trasformato in un libretto che si chiama “L’obbedienza non è più una virtù”. Tra questi c’è certamente il richiamo a ogni persona, a ogni cittadino, a ogni giovane, di sentirsi responsabile di tutto, e dunque di agire come se la responsabilità di come va il mondo dipendesse unicamente dal suo comportamento. Ecco, se questo agire venisse assunto come comportamento generalizzato saremmo certi che molti misfatti non succederebbero più. Ovviamente questo richiede che ci sia un atteggiamento di consapevolezza e di sovranità. Un grande insegnamento che ci veniva da Barbiana, infatti, era che non dobbiamo compiere nessuna scelta se prima non l’avevamo passata al vaglio del nostro cervello. C’era sempre questo invito a pensare su tutto ciò che ci veniva chiesto di fare e di adeguarci soltanto se lo condividevamo e se era in linea con i nostri valori. Consapevolezza e assunzione di responsabilità credo siano i due principi guida che ci ha lasciato Barbiana, e Milani in particolare, e che sarebbe ancora estremamente importante che li utilizzassimo per evitare, così, tutta una serie di catastrofi che sono di fronte a noi.
Lei è stato uno dei promotori della Rete Lilliput. Come mai quell’esperienza non ha funzionato? E cosa sarebbe da riprendere?
Recentemente è uscito il suo libro “Le catene del debito”, dove critica i “luoghi comuni” a proposito del debito pubblico. Quali sono questi luoghi comuni?
Per ogni debitore c’è sempre un creditore. Quali sono i creditori dello stato italiano?
Una prima divisione da fare è quella tra creditori nazionali e creditori esteri.
I creditori esteri rappresentano circa il 40%, anche se va precisato che dentro questo 40% c’è anche una quota di investitori italiani “estero-vestiti” perché, pur essendo italiani e utilizzando capitale italiano, preferiscono però comprare i titoli di debito pubblico attraverso agenzie e società estere per ovvi motivi di agevolazione fiscale, un’elusione fiscale in piena regola. Quando parliamo di creditori esteri, però, non stiamo parlando solo di banche estere, soprattutto le banche del Nord Europa ma anche banche americane, ma anche di fondi d’investimento, di assicurazioni, senza dimenticare neanche la Banca Centrale Europea che, pur non potendo acquistare per statuto buoni del tesoro, si riempie però i cassetti di titoli di debito pubblico italiano attraverso i prestiti che la BCE fa alle banche italiane. In cambio dei suoi prestiti la Banca Centrale Europea chiede, infatti, alcune garanzie, tra le quali ci sono anche i buoni del Tesoro e, proprio in virtù di questo meccanismo, ha riscosso dal governo italiano qualcosa come 8 miliardi di interessi.
L’altro 60% è, invece, costituito da soggetti nazionali, in primis le banche italiane con circa il 24%, poi le assicurazioni e i fondi con il 20% e, in terza posizione, le famiglie italiane con il 10% (tanto per sfatare il mito secondo cui il debito pubblico italiano sarebbe posseduto prevalentemente dai cittadini) e, infine, abbiamo una quota minoritaria per il 5-6% che è detenuto dalla Banca d’Italia, anche qui un coordinamento di banche purtroppo anch’esso di natura privata.
Tra le cause della crisi italiana ritiene che vi sia anche la questione del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia del 1981?
Tra le sue proposte vi è quella del “ripudio del debito”. Ritiene, a tale proposito, che sia necessario un audit sul debito pubblico?
È necessario un audit, per fare delle verifiche di quali sono state le ragioni per cui ci siamo indebitati, in modo da capire non soltanto le cause – i privilegi fiscali concessi alle classi agiate, la corruzione che in Italia sappiamo essere abbastanza corposa – che hanno assottigliato le risorse a nostra disposizione per poter pagare gli interessi, ma anche le responsabilità da parte degli investitori che sono riusciti, attraverso processi speculativi, a fare in modo che i tassi d’interesse si mantenessero a certi livelli. Bisognerà, dunque, cominciare a chiederci se un debitore deve continuare a pagare il suo debito per l’eternità, soprattutto se innescato da anatocismo, o se a un certo punto bisogna decidere, anche per legge, la cessazione di qualsiasi tipo di obbligo, proprio per cercare di regolarizzare i rapporti. Sono dunque d’accordo con un audit, inteso come un’indagine per cercare di capire come si è formato il debito e per verificare tutte queste situazioni ma, soprattutto, per mettere in evidenza quali sono le quote di debito che si sono create per delle iniziative che non hanno niente a che vedere con il bene collettivo. E, da questo punto di vista, tutte le ruberie che sono state commesse si inscrivono in questa logica, così come le manovre speculative.
Nel 2007, infatti, l’Ecuador ha fatto un audit per tentare di capire da dove derivava tutto il suo debito e, spulciando tutte le carte, è venuto fuori che una parte del debito era stata contratta a tassi esagerati proprio per rendere un favore alle banche americane e, chiarita la situazione, c’è stata una chiara posizione da parte del governo dell’Equador che ha detto: “Noi questa parte di debito non siamo disposti a pagarla”. In un primo momento le banche coinvolte hanno fatto la voce grossa dopodiché, secondo la regola per la quale quando il debitore non paga i problemi non sono del debitore ma del creditore, sono venute a patti e hanno estinto il debito riducendolo di circa il 70%. Il ripudio del debito, dunque, inteso come ripudio di tutta quella parte di debito che è stata creata non per rendere un servizio ai cittadini, ma per favorire la classe politica, le banche, il mondo della finanza e il mondo dell’economia, è possibile soltanto attraverso una seria indagine, ossia un audit pubblico e popolare, il più trasparente possibile e affidato alla sovranità collettiva.
Lei ritiene che il problema che assilla tutta l’Europa sia un problema da debito pubblico o da debito privato?
I due temi sono strettamente collegati fra loro perché, purtroppo, il debito privato viene assunto dal governo e diventa un debito pubblico. In Italia questa realtà è abbastanza marginale, ha coinvolto il Monte dei Paschi di Siena con un esborso di 4 miliardi da parte del governo italiano ed era già successo per altre banche minori per un ammontare di circa altri 4 miliardi. Complessivamente, dunque, il debito pubblico italiano si è accresciuto di 8 miliardi, ma all’estero la cifra è stata molto più alta. La Spagna, ad esempio si è indebitata con i fondi europei per circa 40 miliardi per salvare le proprie banche; l’Irlanda ha fatto una fine ancora più impietosa, indebitandosi per circa 80 miliardi. Senza dimenticare la stessa Germania che ha dovuto costituire un fondo di circa 500 miliardi. C’è una stretta connessione fra debito privato e debito pubblico, proprio perché il debito delle banche induce i governi, in ragione del bene collettivo supremo, a farsi carico dei loro debiti e il debito privato diventa così debito pubblico. Questo è il meccanismo, e quando il problema diventa dei governi le banche, addirittura, passano dall’altra parte della barricata e, dimenticando il fatto che gli stati si sono indebitati per tirarle fuori dalla palude, si fanno aguzzini, diventano loro stesse prestatrici di soldi e, attraverso la speculazione, pretendono dei tassi d’interesse sempre più alti. Queste sono le assurdità del sistema in cui ci troviamo.
Come mai l’Europa che è stata costruita, l’Unione Europea, è un’unione solo monetaria?
Nel suo libro afferma che “la sovranità monetaria non è sufficiente, ma è fondamentale anche quella politica”. Ci vuole spiegare meglio questo concetto?
La sovranità monetaria è un passaggio necessario, ma non sufficiente, soprattutto pensando al livello di debito che abbiamo raggiunto. La sovranità monetaria ci farebbe recuperare la possibilità di poter stampare moneta e, quindi, di poter utilizzare la moneta come uno strumento al servizio dei governi, soprattutto per raggiungere finalità sociali. Oggi questo tipo di esigenza è molto pressante, poiché abbiamo qualcosa come 6 milioni di disoccupati in Italia, che corrispondono al 24%, e sono contento che anche Saccomanni lo abbia finalmente riconosciuto. Fino a poco tempo fa, invece, si parlava del tasso di disoccupazione al 12,5% della forza lavoro, ma questo dato è un inganno, perché si continua a prendere come riferimento soltanto coloro che cercano attivamente lavoro, mentre sappiamo che c’è un numero altrettanto grande di disoccupati che vorrebbe lavorare, ma ormai il lavoro non lo cercano neanche più perché è scoraggiato. La cifra vera, dunque, è sei milioni uguale al 24% della forza lavoro e, in una situazione di questo genere, si continua a dire che la crescita ci salverà, pensando che i posti di lavoro li debbano creare soltanto le imprese private. Questo, purtroppo, è il nostro vizio, il baco che abbiamo nella testa, mentre dobbiamo cominciare a dire che i posti di lavoro possono e devono essere creati soprattutto dalla struttura pubblica per il soddisfacimento di tutti i bisogni collettivi che abbiamo, che vanno dai servizi come la Sanità e l’Istruzione fino alla difesa e alla ristrutturazione dei territori che sono stati degradati. Abbiamo una quantità di bisogni enorme e, contemporaneamente, un’enorme quantità di disoccupati. Non utilizziamo però i disoccupati che abbiamo per risolvere i problemi perché non abbiamo quei stramaledetti miliardi di euro da mettere in circolazione per chiudere il cerchio. Keynes ce l’ha insegnato già nel 1930: questo problema si risolve semplicemente dando ordine alla Banca Centrale di stampare nuova moneta per pagare i salari che servono, poi una volta superata la crisi si può anche pensare a come ritirarla se ce ne sarà bisogno, ma questo è un problema tecnico che verrà dopo. Questo per dire che va assolutamente recuperata la sovranità monetaria innanzitutto per una questione di carattere sociale, ma poi anche per riuscire ad avviare un processo di risanamento del debito pubblico, cominciando a stampare soldi freschi per pagare i tassi d’interesse anno per anno.
La sovranità monetaria, però, non è sufficiente, perché quando parliamo di debito pubblico pensiamo sempre agli interessi, ma non pensiamo mai alla montagna di capitale che dobbiamo rimborsare, circa 2.000 miliardi. Non possiamo pensare di restituire 2.000 miliardi di capitale semplicemente stampando nuova carta moneta perché, se questo fosse attuato a livello europeo, vorrebbe dire stampare qualcosa come 10.000 miliardi di euro e questo, certamente, avrebbe un grave effetto inflazionistico. Se vogliamo evitare certi processi, dobbiamo anche pensare a entrare in rotta di collisione con i creditori, dicendogli semplicemente che attuiamo il Giubileo, smettiamo di pagarli perché non è ammissibile che, in nome degli interessi privati, si debba mettere in croce un popolo intero. Recuperiamo, dunque, la sovranità monetaria ma, nel contempo, dovremmo accettare di entrare in un conflitto aperto con i creditori per cominciare a pensare a delle operazioni quantomeno di ristrutturazione del nostro debito che, inizialmente, possono avviarsi con delle operazioni di congelamento del pagamento dei capitali.
Non ritiene che il mantenimento di questa Europa sia una delle principali cause dell’insorgere dei nazionalismi in Europa, come la Le Pen in Francia o Alba Dorata in Grecia?
Detto questo, io sono assolutamente contro questo tipo di ordine economico mondiale che si chiama “Globalizzazione” e sono assolutamente convinto che dobbiamo cercare di riscrivere le norme a livello mondiale per cercare di favorire l’economia locale, ma all’interno di un sistema che sia capace di mettere in atto contemporaneamente quella solidarietà che ci consenta di collaborare per poter aiutare anche i nostri vicini a superare i loro problemi.
Ritiene che attualmente vi siano le condizioni e i rapporti di forza per pensare a un’Europa diversa e cosa pensa, invece, delle proposte di Bruno Amoroso e Luciano Vasapollo di un’Europa del Nord e del Sud?
Il principale ostacolo, che abbiamo non soltanto in Europa ma anche in Italia, è la mancanza di partecipazione perché, nonostante tutti i nostri problemi, abbiamo dei parlamenti e dei governi che hanno la faccia rivolta verso il passato e che sono terribilmente ammanicati con i poteri forti. Questa è la drammaticità del momento che stiamo vivendo, che stiamo mandando dei parlamenti a fare gli interessi nostri quando invece fanno gli interessi degli altri, e lo possono fare perché stiamo entrando in una dimensione di indifferenza e di disaffezione dalla partecipazione. Per recuperare la possibilità di costruire un’altra Europa bisogna recuperare la partecipazione e la consapevolezza e, prima ancora della consapevolezza dei meccanismi tecnici, dobbiamo recuperare la consapevolezza degli obiettivi e dei valori. Questo è quello che assolutamente ci manca. Noi dopo due secoli di mercantilismo spinto abbiamo assimilato totalmente i concetti del mercato. Da questo punto di vista dovrei mutuare la definizione di Latouche: noi abbiamo lasciato che il nostro immaginario venisse colonizzato da tutta una serie di visioni a carattere mercantilista. Noi siamo qui a cercare di costruire un’Europa nuova quando, invece, siamo “i vecchi” che appartengono al vecchio mondo, e con la vecchia visione non la costruiremo mai. È un problema serio, non so come riusciremo e da dove cominciare, forse ci vorrà l’azione combinata dei gruppi che hanno questo tipo di consapevolezza e che dalla base fanno un lavoro per far nascere un nuovo pensiero, e forse anche di dirigenze illuminate, ma che ahimè non ne vediamo all’orizzonte, che comincino ad assumere un ruolo di leader classico, che non vuol dire essere il pastore che guida le pecore, ma essere qualcuno che lancia delle nuove sfide e che mette a fuoco quali sono i problemi, facendo anche intravedere delle soluzioni alternative rispetto a quelle abituali. Queste sono le condizioni per riuscire a costruire un’altra Europa, ma se mi chiede se queste condizioni ci sono le rispondo: no, oggi non ci sono. Non ho, dunque, la risposta di come si possa realizzare, posso soltanto dire che io cerco di dare il mio contributo e di organizzare tutti coloro che hanno raggiunto un certo tipo di consapevolezza, ma niente di più. Se tutto questo sarà sufficiente o non sarà sufficiente, questo sarà la storia a dirlo.
Certo che c’è un’alternativa all’euro: la proposta di Amoroso è una di queste, la proposta di Lordon e Sapir di una “moneta comune” è un’altra, anche se non so se potrebbe funzionare poiché qualcuno ha sollevato alcuni dubbi. Da un punto di vista tecnico c’è, comunque, questa possibilità e poi, certo, c’è sempre la possibilità di poter tornare alle nostre monete nazionali, che io stesso nel mio libro vedo come “ultima ratio”. Se, cioè, ci rendessimo conto che tutti i tentativi per avere un’Europa gestita in maniera diversa non funzionano, allora potremo anche accettare di tornare alla nostra lira.
In quel caso, però, dobbiamo anche chiederci che tipo di Italia vogliamo costruire, perché se vogliamo costruire un’Italia che ragiona, dal punto di vista degli obiettivi sociali, esattamente come l’Europa allora sarebbe una vittoria di Pirro. Avremmo semplicemente la nostra lira con possibilità di svalutazione, che non è certo la panacea di tutti i mali perché ha colpi e contraccolpi, ma da un punto di vista sociale non avremmo modificato di molto la situazione. La proposta di Brancaccio di uscita dall’euro “da sinistra” credo che rientri in questa logica. Dovremmo, cioè, avere la consapevolezza di quale tipo di lira vogliamo costruire, al servizio di chi e, soprattutto, quale tipo di programma politico vogliamo raggiungere una volta che siamo tornati alla nostra sovranità monetaria. Questa, secondo me, è l’uscita dall’euro “da sinistra”.
Intervista a cura di Rodolfo Monacelli