Gheddafi: l’ostentazione della morte

Creato il 24 ottobre 2011 da Nicola Mente

Real Tv, la morte in diretta. Quante volte è accaduto in un sommesso dopocena, di buttare lo svago in programmi tv e film che ci disegnano la morte? Quante volte è accaduto di essere rapiti da un mix di tragedia e show? Ѐ un rituale che ci prende sotto braccio da almeno un cinquantennio. L’avvento della nuova era, l’età della trasposizione mediatica del Grande Occhio che tutto spia, l’età di internet e del “palinsesto fai-da-te”, ha aggiunto al cocktail cruento la specificazione del “real”. Reale, non finzione. Morte vera, autentica. Consapevolezza di guardare la fine di un uomo, in un percorso già delineato, in cui lo sgomento diventa un brand da esportare.

Questo accade trasversalmente, in tutti gli ambiti. La comunicazione è intrattenimento, non ci sono più ruoli dai contorni spessi, e così capita che tu possa seguire da casa una partita di serie A e un’esecuzione al grande cattivo, che sa di fine del film. Esempio?Mu’ammar Gheddafi. Morto (pare) a Sirte, dove sarebbe stato trovato in una buca, torturato e giustiziato con una Calibro 9, con tanto di riprese, da parte di non-si-sa-chi.

Ѐ infatti di poche ore fa la notizia che il Consiglio Nazionale di transizione di Tripoli ha aperto una commissione d’inchiesta sulla morte del leader libico, dopo le smentite da parte dei ribelli (oramai marchio registrato) sul loro coinvolgimento nell’affare. Intanto, le immagini sono subito gocciolate sul web. Sputi, insulti, umiliazioni. Roba da cinquantanni fa, verrebbe da pensare. Se non fosse, appunto, per le riprese. Attimi  raccolti, e diffusi senza remora alcuna, in prime-time. Foto stampate su quotidiani di tutto il mondo, senza bollino rosso. Un segnale chiaro di eliminazione, quasi costruito per bombardare emotivamente l’opinione pubblica. La stessa opinione pubblica indignata davanti alle notizie dei bombardamenti aerei su Tripoli, nello scorso inverno: “Migliaia di morti. La notizia corre su Twitter”.

Le notizie corrono, velocemente. Non fai in tempo a capire, a cercare di trovare un senso al fatto, che il fatto è già accaduto, cristallizzando il nocciolo. “Gheddafi bombarda Tripoli”. “Gheddafi è morto”. Le domande non hanno spazio d’entrata, i dubbi non hanno più possibilità di salire a bordo.

Come se si volesse apportare un triste cliché ove tutto segue un itinerario preciso. Una morte non comune, avvenuta in modo banale. Per intenderci, una sorta di riproposizione di contorni misteriosi ai quali faranno seguito sommarie ricerche di verità, nonostante  i proclami iniziali. Mi viene in mente Bin Laden, gettato nell’oceano mentre nello Studio Ovale si consumavano pop-corn e coca-cola. Mi viene in mente Vittorio Arrigoni, rapito da un’organizzazione terrorista autonoma (di quattro o cinque persone, non di più) che lo fa trovare impiccato. Senza alcuna rivendicazione autentica, senza alcun movente.

Muore come in un film, colui che nei decenni passati ha rappresentato il regime più tollerato dalle potenze occidentali, colui che negli anni Settanta è stato alleato delle politiche economiche di molti Stati europei: muore perché ha superato la data di scadenza.

Già, perché le date sono importanti. Le scadenze e le preparazioni puntigliose, le valutazioni sulle possibili conseguenze della mercificazione del prodotto-morte. Il profondo senso partecipativo del “cattivo in tv” (Gheddafi, Hussein, Er Pelliccia) e del buono a casa. Il profondo senso partecipativo del “è successo, poche storie”. Davanti al filmato truce esplode la maieutica delle emozioni. Si gode del passaggio da carnefice a vittima, da re dell’ingiustizia a protagonista dell’ingiustizia: quell’ingiustizia anonima, che si dà una spolverata di Provvidenza Divina. Se l’immagine di Gheddafi è l’icona del male, le immagini di Gheddafi umiliato sono il rituale con cui ci si purifica. Un rituale satanico, con modalità splatter, seguendo i gusti del telespettatore imbonito dal sequel-thriller incorniciato di noir.

Alla conclusione di questa riflessione che altro minuzioso particolare non vuol più aggiungere  alla morbosità mediatica dei giorni scorsi, si può prendere del tempo per se stessi. Il tempo di un caffè, il biglietto d’imbarco per qualche domanda o per qualche dubbio. Una mistica interrogazione su questo immenso circo, specchio d’intrattenimento in cui le scelte prendono forma di condivisione d’idee prestampate, di azione programmata, e non vanno oltre il click su un bottone (che sia del mouse o del telecomando) in un sommesso dopocena.

(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine” del 24 ottobre 2011)



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