Ghosts and devils come calling, calling my name oh, lost in the fire… Ovvero…

Creato il 01 dicembre 2015 da Cineclan @cineclan1

Più vado avanti nella mia esperienza di spettatrice (quella di critico è andata bellamente a quel paese, dato che è da una vita che non scrivo una recensione decente…), più mi rendo conto che l’esperienza filmica è assolutamente soggettiva. Ovviamente ci sono le componenti per giudicare “oggettivamente” un film (regia, sceneggiatura, fotografia, interpretazioni…), stilemi che tutti usiamo per inquadrare, incasellare, giudicare un film. Ma il sentimento? Beh, quello non lo possiamo incasellare. Quello non lo possiamo giudicare. Possiamo solo viverlo e ognuno di noi lo vive a proprio modo, intimamente e privatamente. Il sentimento di un film è solo nostro. E a me, nonostante tutto, Il sapore del successo ha dato qualcosa che non mi aspettavo di trovare in una commedia. Ebbene sì, io, the Queen in the Angst, sono andata al cinema a vedere una commedia e mi è anche piaciuta. Certo, Il sapore del successo non entrerà mai nella Top 5 delle mie commedie preferite (a dirla tutta non entrerebbe neanche nella Top 20…), ma una solitaria lacrima di commozione c’è stata ed è in quella lacrima che il film assume il suo personale valore per me. In quella solitaria lacrima c’è tutto un arcobaleno di sentimenti che la storia di Adam Jones porta con sé.

Diciamo anche che l’alta cucina assomiglia per certi versi al mondo del cinema. Sì, il mondo del cinema è l’I-Ching della vita come Il Padrino… O sono io a vederla così? Ai posteri l’ardua sentenza!

Dicevamo… La cucina di un ristorante 3 stelle Michelin è come il mondo del cinema, una dittatura illuminata. Un lavoro collettivo, vero. Un lavoro di concerto, ovviamente. Un lavoro che non si potrebbe fare senza gli altri, ma soprattutto un lavoro dove l’ultima parola spetta (DEVE spettare) a una sola persona, altrimenti non se ne esce più! Che sia lo chef, il regista, il produttore poco importa. Alla fine solo uno assurgerà al ruolo di idolo e dio. Che poi, come giustamente afferma David nel film, “c’è differenza?” Gli idoli e gli déi sono venerati… E cadono. Oh, se cadono… E quando cadono fanno rumore, molto rumore. Ma gli déi e gli idoli sono quelli che cadono, si sgretolano, aprono un milione di ostriche e risorgono dalle proprie ceneri. Uguali ma diversi da com’erano. E la storia di Adam è tutta qui, in questa volontà di rinascere, in questa volontà di rivalsa. Rivincita soprattutto nei confronti di se stessi. Perché il nostro peggior nemico siamo noi stessi. Nessuno può portarci in alto o farci cadere nel baratro più profondo come noi stessi. Il mondo, gli altri, la vita, possono portarci sull’orlo del precipizio, ma poi la scelta, la VERA scelta è solo nostra… Saltare o salvarci? E Adam sceglie di salvarsi, ma lo fa solo verso la fine, perché la sua aspirazione alla perfezione è ciò che veramente lo trattiene. Perché c’è stato qualcuno di importante nella sua vita che gli ha detto che tutto sarebbe andato bene e poi non ha mantenuto la promessa. E’ con questo che Adam deve fare i conti, con la semplice verità che nessuno è perfetto. Tutti feriscono tutti e l’unico modo per vivere è quello di accettare di ferire e farsi ferire dagli altri e venire a patti con questo “scoprirsi” è la cosa più difficile del mondo. E’ l’affidarsi all’altro da sé, è capire che nessun uomo è un’isola la vera sfida della vita. E’ sedersi a un tavolo e condividere del cibo che ci rende comunità, che ci costruisce come “famiglia”. Perché cucinare è un atto d’amore. Vuol dire prendersi cura di qualcuno. Cucinare vuol dire amare, altrimenti stiamo solo preparando del cibo.

È uno chef con due stelle Michelin: per avere una stella Michelin devi essere come Luke Skywalker, ma, se riesci a prenderne tre, sei Yoda. – Se lui fosse Darth Vader?

Ps. La citazione da Star Wars era d’obbligo!


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