Giacomo Leopardi

Creato il 23 settembre 2014 da Lory663
Nel campo della poesia lirica italiana la figura più importante dopo il Petrarca, è quella di Giacomo Leopardi. Egli nacque a Recanati il 29 giugno 1798. L'ambiente familiare in cui Leopardi crebbe non era certo il più felice e adatto per un bambino: vecchio e cadente il palazzotto avito, austero e intransigente il carattere del padre, il conte Monaldo; la madre, la marchesa Adelaide Antici, seguiva con fanatismo e arida austerità le pratiche religiose, ma si estraniava sempre più dai figli, costringendoli a vivere quasi in clausura. In questa severa atmosfera trascorse l'infanzia di Giacomo, fratello maggiore di Carlo e di Paolina, quella dolce fanciulla che sarà in seguito l'unica persona della famiglia a incoraggiarlo e a comprenderlo.

Un ex-gesuita venuto dal Messico, Giuseppe Torres, fu il primo maestro del fanciullo che non era affatto, agli albori della vita, quell'essere deboluccio e curvo che le litografie ci hanno fatto conoscere: Giacomo era esuberante, persino prepotente, smanioso di giochi, poco incline allo studio. Ma quando cominciò ad apprendere i basilari rudimenti della cultura, si affezionò a questa profondamente, e il maestro succeduto all'ex-gesuita, don Sebastiano Sanchini, ebbe motivo di meravigliarsi per la straordinaria precocità del suo allievo che, appena undicenne, scrisse la sua prima poesia, un sonetto intitolato La morte di Ettore e tradusse il primo libro delle Odi di Orazio.

A dodici anni compose i Re Magi e il Paradiso terrestre cimentandosi con i versi sciolti e la sesta rima, e poi, quattordicenne, tradusse in ottave l'Arte poetica di Orazio, applicandosi in seguito allo studio del greco con tanto impegno che, dopo quattro mesi era, già in grado di scrivere in greco una lettera allo zio, marchese Carlo Antici.

Successivamente si dedicò allo studio dell'ebraico, mentre scriveva una Storia dell'astronomia e poi un Saggio sugli errori popolari degli antichi. A diciassette anni, l'età in cui gli altri adolescenti pensano poco allo studio e molto al divertimento, egli passava le giornate nella ben fornita biblioteca paterna, e trovava sollievo all'austera vita familiare nella lettura di opere filosofiche, storiche, scientifiche, e nella stesura di pagine su Ermogene, Dionigi di Alicarnasso, Dione Crisostomo, Esichio, ecc.

Questa eccessiva applicazione allo studio, però, gli rovinò la salute, lo incurvò, furono i primi sintomi di quell'infermità che a poco a poco deformò il suo corpo e gli diede sofferenze che divennero sempre più gravi. Tuttavia egli non mutò sistema di vita, e continuò a scrivere, non più opere di erudizione, ma traduzioni limpide e fedeli: quelle degli Idilli di Mosco, della Batracomiomachia, del primo libro dell'Odissea, del secondo dell'Eneide, della Titanomachia di Esiodo. Poi, come se tutto il lavoro svolto fino a quel momento fosse stato solo una preparazione, si decise a comporre i Canti, dopo aver dettato in terzine l'Appressamento della morte e Le Rimembranze, un delicato idillio, nel quale vibra il suo inconsolabile pianto per la vita che egli sentiva sfuggirgli.
 Ben presto il Leopardi raggiunse una certa notorietà come poeta, ma toccò a Pietro Giordani il vanto di essere stato fra i primi a intuire il suo genio. Fra Pietro e Giacomo ci fu un frequente scambio di corrispondenza, che consentì al giovane poeta di aprire, finalmente, l'animo a un uomo che lo capiva e ammirava.

Nel 1818 la visita di Giordani diede occasione a Giacomo di recarsi con lui a Macerata, ove ebbero un colloquio con alcuni Carbonari; e tale colloquio non fu certo estraneo alla ispirazione che indusse il ventenne Leopardi a comporre le due canzoni all'Italia e Sul monumento di Dante, l'una e l'altra avvampanti di amor patrio, in netto contrasto con le idee del conte Monaldo che, incapace di considerare come un fatto spontaneo le nuove idee politiche del figlio, incolpò il Giordani di aver inculcato in Giacomo le proprie convinzioni e di avergli fatto perdere la fede religiosa.

E' probabile che il Giordani non abbia avuto una parte così rilevante nel mutamento di Giacomo, il quale, intanto, era tormentato da un amore non corrisposto: si era innamorato della cugina Geltrude Cassi che per qualche giorno era stata ospite di Monaldo e di Adelaide. Quando la cugina ripartì, il poeta si sentì più infelice di prima. Quella doveva essere la prima delusione d'amore per lui, che in seguito s'innamorò di una popolana, una certa Brini, quindi di Teresa Fattorini, che gli ispirò i famosi versi della poesia A Silvia, composta qualche tempo dopo, negli anni 1827-1828, e in seguito della nobile Broglio, senza trovare mai rispondenza ai suoi sentimenti.

Ma tutta questa amarezza lo portò ad approfondire le proprie idee sulla poesia, a cercare nel verso l'oblio dei suoi dolori e il conforto morale, e quando, sul finire del 1822, egli riuscì ad allontanarsi da Recanati, il "natio borgo selvaggio", per trasferirsi in casa dello zio Carlo Antici a Roma, sperò di trovare la felicità. Invece il contatto con la vita frivola della nobiltà e lo stato di abbandono in cui vide i gloriosi monumenti della potenza romana, accrebbero ancora la sua disperata solitudine.

Ritornò a Recanati nell'aprile del 1823 e, dopo appena cinque mesi di soggiorno a Roma, riprese a lavorare alacremente, e, verso la metà di luglio del 1825, partì per Milano, dove lo aveva chiamato l'editore Stella. Ma la metropoli lombarda non gli piacque, e preferì andare a Bologna, dove visse con il misero assegno che ogni mese  l'editore gli anticipava, e con qualche lezione. Da Bologna si trasferì a Firenze, quindi a Pisa; ma improvvisamente una dolorosa oftalmia gli impedì di lavorare, e perciò nel 1828 ritornò a Recanati. Proprio in questo periodo creò i suoi "grandi idilli": Le Ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante nell'Asia e il Passero solitario. 

Soltanto nel maggio del 1830 potè lasciare definitivamente l'austera casa paterna, e andare a Firenze, ove curò l'edizione dei Cantiche uscirono nell'aprile del 1831 e che fecero convergere su di lui l'attenzione dei più nobili ingegni d'Italia.

Nel periodo fiorentino, Giacomo strinse amicizia con Antonio Ranieri, esule napoletano, che gli era stato presentato da Alessandro Poerio, e che lo condusse a Roma e, dopo l'esilio, a Napoli. Durante il soggiorno a Firenze, il poeta ebbe un'altra tremenda delusione d'amore a causa della frivola signora Fanny Targioni-Tozzetti.

Compose in questo periodo i suoi più grandi canti d'amore: Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso e Aspasia, il "canto dell'inganno estremo". La sua salute peggiorava sempre più, ma egli sperava in un giovamento dal mite clima di Napoli. Si avvide però di essersi illuso, e trascurando la cerchia di altri spiriti che il Ranieri gli aveva fatto conoscere, si appartò sempre più. Appartengono a quel periodo la Ginestra, scritta nel 1836 nella villetta del Ranieri ai piedi del Vesuvio, e l'ultimo suo canto, Il tramonto della luna, che egli compose poco prima della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1837.

Infieriva, in quelle settimane, a Napoli, il colera, e solo la costanza del Ranieri impedì che la salma del poeta fosse gettata nella fossa comune. Il fedele amico riuscì a seppellirla di nascosto nella chiesa di San Vitale Fuorigrotta, ove rimase fino all'anno 1939, quando fu tolta per essere trasferita nella tomba di Virgilio, presso Posillipo.

La vita di Leopardi si svolse senza episodi di rilievo, tanto che il poeta stesso la definì "la storia di un'anima". Un'anima bersagliata dalla sorte, incompresa dai familiari e spesso anche dai critici di poco conto, allarmati dal suo pessimismo a tal segno che, quando egli partecipò con le Operette morali a un concorso bandito dall'Accademia della Crusca, ebbe due soli voti, mentre tutti gli altri andarono a Carlo Botta per la Storia d'Italia dal 1789 al 1814.

Debole e curvo, afflitto dall'asma, costretto a lavorare duramente per sottrarsi al'egoismo del padre e all'indifferenza della madre, Giacomo Leopardi fu portato naturalmente al pessimismo anche per la mancanza d'un amore che lo confortasse e per le precarie condizioni finanziarie in cui spesso si trovava. Ma le sue poesie hanno ricavato dall'amarezza del suo animo quella potenza, spontaneità e originalità che le rendono sublimi.
  Leggi i Canti di Gicomo Leopardi
oppure Storia di un'anima    

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